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Ultimi scritti

AVVISO DI BURRASCA 

Ci siamo goduti per tutta la giornata un’insolita solitudine nel porto. Ormai non potevamo più scappare. Bisognava farlo, come tutti gli altri, di prima mattina, prima che la bora rinforzasse. Nel programmare la giornata successiva ho dovuto alla fine cedere, verso sera, alle insistenze del mio equipaggio, più previdente e meno incosciente di me, che ha preteso d’accendere il VHF per ascoltare il Meteomar. Ed è stato subito terrore allo stato puro. Il tifone Medusa prima e il tifone Medea poi si sarebbero scatenati sull’Adriatico settentrionale, dove era prevista, nelle dodici ore successive, burrasca forza 8. Saremmo rimasti bloccati in porto per la seconda giornata. Contagiato dal terrore trasmesso via etere, sono entrato in panico anch’io. Un pescatore del posto, incuriosito dalla presenza di una sola barca nel suo porto, si è avvicinato in banchina e ci ha comunicato la sua teoria sulla bora: «Tosi, aspettè doman matina. Ae sinque e mezo podè capir se partir o se star chi. Xe l’ora in cui la bora decide di pompar o de no pompar». Così avrei fatto. Ho fissato la sveglia alle cinque e mezza, mi sono alzato e sono andato a piedi a vedere com’erano il mare e il vento di là dal faro di Pirano (Punta Madonna). Sono tornato in barca e ho sentenziato: «Ragazzi, si parte, affrontiamo pure la burrasca forza 8». Abbiamo puntato la prua in modo deciso verso Sistiana. Vele (ridotte) a segno e un po’ di motore. Abbiamo raggiunto subito, e mantenuto per tutto il tragitto, gli 8,5 nodi di velocità, nonostante il mare formato e il vento sui 20 nodi. La bora da scura è diventata chiara. Il sole era pieno. Le nubi si sono dileguate, come pure i paventati venti di burrasca. Siamo arrivati in un baleno nel nostro porto di armamento dopo meno di due ore dalla partenza, pronti, verso le otto, alla prima colazione cui avevamo rinunciato. Appena in tempo per assistere all’uscita dal porto delle barche che si sarebbero godute una tranquilla giornata festiva e di liberazione da ogni terroristica previsione meteo. Noi, più che compiacerci dello scampato pericolo, rimpiangevamo d’essere tornati a casa con troppa precipitazione. Tutto per aver ascoltato la sera prima, non so se colpevolmente o prudentemente, gli "avvisi di burrasca"

 

VELA È TERAPIA?

Il mare è un farmaco che cura sedici malattie, (le hanno contate!), dalle allergie respiratorie al rachitismo. 
E la vela? “La vela è la mia terapia.” È quasi una battuta, un detto sempre più frequente tra velisti e aspiranti tali. 
“La vela è una passione folle.” Altra verità di cui si disserta tra gli addetti e non. La vela, dunque, non cura la malattia ma la determina. Quale sarà la verità? Si favoleggia su chi, partito in barca a vela dal nostro malconcio mondo occidentale, malato di cancro, si sia trovato guarito una volta arrivato in Polinesia. 
Quindi si spazia dalla più grave malattia fisica alla più grave malattia psichica. Qui potrei essere tentato a inserire una divagazione professionale sull’interconnessione tra mente e corpo ma ve la risparmio. Dico solo che anche la vela, come tutte le passioni, può essere sia una terapia che una malattia. 
A suo tempo ho pensato che la vela mi abbia salvato dalla schizofrenia, all’epoca in cui li frequentavo quotidianamente gli schizofrenici, lavorando in manicomio. 
Poi mi ammalai di cancro, una prima e una seconda volta. Dal primo tumore, di quasi trent’anni fa, dovrei essere guarito, con il secondo convivo da oltre dieci anni. Il mio convivente attuale si chiama, in gergo tecnico, “linfoma indolente”. La sua indolenza è legata alla sua straordinaria benignità, alla sua scarsa aggressività. Un’indolenza infida in un tumore che, paradossalmente, tanto più è “benigno” quanto meno è curabile… Infatti i medici, a proposito del primo, maligno, mi dicevano: «Il tuo tumore è tra i più aggressivi, ma proprio per questo è anche tra i più curabili perché risponde meglio ai nostri farmaci altrettanto aggressivi». Ora ci convivo bene, con questo secondo. 
È indolente ma non insolente. 
Mi permette una qualità di vita niente male, che non ho mai raggiunto prima. Vivo di vela trecentosessantacinque giorni l’anno. Vela navigata per un semestre, vela pensata per l’altro. Per la mia malattia non seguo alcuna terapia: l’unica terapia cui mi sottopongo, ad alto dosaggio, è quella della vela. Vivere di vento, sole e mare in una casa galleggiante tra le più instabili e scomode, una sfida e una scommessa che giochi con te stesso e la tua barca, da solitario o con un equipaggio. 
Una malattia indolente che mi spinge a vivere con la minor indolenza possibile, ad affrontare con coraggio e allegria i marosi dell’esistenza. Sono un ultrasettantenne che, grazie alla malattia, vive una vita piena (anche di rischi), un lusso che non potevo permettermi da ventenne sano.

 Una vita per la vela diventa allora una vela per la vita. 

 

40 ANNI A SISTIANA (TS)

Le barche a vela diventano d’epoca a 40 anni, anch’io sono diventato, dopo quarant’anni, “socio d’epoca”  della gloriosa mia Società Velica, la Pietas Julia di Sistiana. 

Mi permetto allora una vergognosa auto celebrazione.

È merito di Sistiana se la mia “carriera” velica è iniziata e progredita di pari passo con la mia carriera professionale. 

È grazie alla vela, con relativo posto barca nella baia di Sistiana, se ho deciso di fare lo psichiatra lontano da casa, a Gorizia, dove ho potuto beneficiare di una fortunata carriera. 

Solo così, carico di fortuna ed esperienza, son potuto tornare a casa, nella prestigiosa sede di Padova, come Direttore a soli 45 anni. 

Ringrazio infine la vela per avermi indotto ad un pensionamento anticipato: due giorni dopo partivo per la traversata dell’Atlantico che ha segnato l’inizio di una nuova vita intensa e felice, piena di vela, che continua tuttora. 

Specularmente devo anche ringraziare la mia professione per avermi potuto permettere di vivere sempre meglio la mia passione velica: infatti ogni progressione di carriera, nonché la pensione anticipata, mi permetteva di volta in volta l’acquisto di una nuova barca, sempre più grande. 

Due vite parallele, tra la passione per la vela ed una professione, quella di psichiatra. 

Da una parte una passione folle per la vela, dall’altra una non meno folle professione per la follia. 

Una fortuita e fortunata combinazione

 


NAVIGANTI DI TERRAFERMA  
Continentale di nascita e figlio di agricoltori, eppure mi ritrovo una passione folle per la barca a vela, che non ha precedenti nella mia famiglia. 
Ma anche i veneziani sono stati per cinque secoli padroni dei mari pur provenendo dalla terraferma: contadini che, per necessità di sopravvivenza o per spirito di conquista, diventarono soldati e marinai.
 

 

PALA DEL TIMONE, SEGUITO ASSICURATIVO
Sono stato liquidato in tronco, dalla mia assicurazione di allora, nel momento più difficile . 
Mi trovavo in Grecia, nelle lontane isole Sporadi settentrionali, senza timone della 
mia barca che si era spappolato per un impatto con un relitto non ben identificato. 
Dopo aver 
comunicato l'accaduto alla compagnia assicuratrice (con la quale avevo DA VENT’ANNI una 
polizza "corpi". equivalente alla polizza Kasko per le auto), mi arriva la disdetta immediata della 
copertura assicurativa in corso, dandomi cinque giorni di tempo per accettare eventualmente le 
nuove condizioni: la franchigia passava da 1200 a 5000€, il premio annuale da 1700€ a 4300€. 
Ob torto collo ho dovuto sottostare fino alla scadenza naturale del contratto a queste nuove condizioni capestro, non potendo ricercare soluzioni alternative in così poco tempo e così lontano da casa, sperduto com'ero alle Sporadi. 
Immagino che questa risoluzione unilaterale del contratto fosse prevista del contratto che avevo 
firmato. 
Quello che non posso giustificare è il comportamento nella gestione successiva del sinistro in parola. 
Sono stato liquidato per 2400€ in quanto questo è stato considerato il costo "congruo" per la ricostruzione del timone, a fronte di circa 6000€ di spese sostenute ad Atene . 
Ammettiamo che anche questa valutazione rientrasse nella discrezionalità della Compagnia. 
Nella denuncia del sinistro, ad esplicita richiesta, avevo comunicato la mia volontà di ricostruimi il 
timone definitivo in Italia, in quanto avevo testato la funzionalità e l'affidabilità (300 miglia da Volos 
ad Atene) del timone d'emergenza, una robusta lastra di acciaio avente le dimensioni e la sagoma 
originali 
Viceversa il perito dell'assicurazione, ad Atene, non ha voluto sentir ragioni: mi ha costretto ad 
affidarmi ad una ditta di sua conoscenza per la ricostruzione in vetroresina del timone. 
Risultato: quel timone ateniese si è aperto in due dopo la prima settimana di navigazione. 
Le maestranze ateniesi son dovute intervenire per tentare di rimediare al loro difetto strutturale di costruzione della pala, una prima volta ad Elaphonisos ed una seconda volta a Preveza, per un 
totale di 15 giorni di "fermo macchina". 
Tornato in Italia (con la pala del timone che continuava a mostrare sempre gli stessi segni di 
incrinatura) ho dovuto naturalmente farla ricostruire a regola d'arte da un cantiere competente 
( altri 5000€ di spesa). 
Il comportamento è stato, diciamo, indecoroso, dell'assicurazione  per il 
dove, il come ed il quando mi è stata comunicata la disdetta immediata costringendomi a subire le 
nuove condizioni capestro, dopo essere stato loro cliente per vent'anni, costringendomi tramite il loro perito ad affidarmi ad un cantiere incompetente ed irresponsabile che ha messo a rischio 
grave di incolumità la mia barca e tutti miei ospiti per un migliaio di miglia ( da Atene a Trieste, il 
porto di armamento della mia imbarcazione). 
Quanto sopra è documentato con tutti i particolari in una mia recente pubblicazione (Il 
pensionauta folle, Il Frangente editore) 
ed è stato pubblicato anche su una nota rivista del settore.

 

RALLY DELLA SICILIA

Notizia dell’ultima ora: il Malta Royal Yacht organizza una regata per questa estate da Catanzaro
per Taormina, Siracusa, Malta.
La notizia mi ha incuriosito e fatto ricordare che anch’io a Malta ci sono arrivato in regata.
Ho sempre sostenuto d’essere un diportista convinto e di odiare le regate.
In realtà ho sempre pensato che i regatanti appartengano ad una popolazione a sé stante ed
antitetica a quella di chi va in barca (a vela) solo per “diporto”.
L’unica regata, chiamiamola “regata”, cui partecipo annualmente è la Barcolana.
Devo confessare però un mio peccato originale.
Anch’io ho partecipato ad una regata “vera”, che ho anche vinto, appena acquistata l’attuale barca,
qualche anno fa.
Mi trovavo a Trapani e venni a sapere che un medico di Taormina organizzava un “Rally della
Sicilia” riservato alla barche da diporto, escluse quelle da regata.
Per l’entusiasmo di voler collaudare la mia nuova barca che si trovava, guarda il caso, proprio in
Sicilia, decisi di partecipare.
Era la mia prima volta, e sarà l’ultima.
Una prima stranezza: la sostanziosa quota d’iscrizione bisognava inviarla in un un conto privato in
Svizzera.
Vai a capire questi Siciliani.
Non mi formalizzai, anche perché l’organizzazione mi sembrava molto accorta e molto ricca di
manifestazioni collaterali.
Si articolava in tappe giornaliere e notturne, suggestive ma non molto impegnative.
L’organizzazione garantiva un tutto pagato: l’ormeggio nella località di destinazione, nonché
escursione terrestre, cena con festa e premiazione dei vincitori di ogni singola tappa.
San Vito lo Capo, Favignana, Marettimo, Sciacca, Pantelleria, Lampedusa, Malta, Siracusa.
Queste le singole tappe, per un totale di 500 miglia.
Durata complessiva: quasi un mese, in quanto nelle singole località erano previste soste
turistico/culturali di vario genere e di varia durata.
Vi partecipava con la sua barca, un 50 piedi, anche l’organizzatore che subito non fece mistero
delle sue intenzioni agonistiche: era la “sua” regata che doveva vincere a tutti i costi, per diritto
divino e di censo.
Naturalmente detto organizzatore/proprietario era anche direttore del comitato di regata.
Vinse la regata della prima giornata perché dichiarò terminata la regata, per assenza di vento, nel
momento in cui lui si trovava in testa, nonostante che la maggioranza degli altri armatori (io
compreso) stessero sopravanzando di gran lena avendo scelta una rotta diversa, a favore di vento.
È stato questo primo episodio che mi fece gridare vendetta, tremenda vendetta.
Nella tappa successiva mi trovavo alla guida della pattuglia (una trentina di barche con relativi
equipaggi). Avevo sfoggiato il mio nuovo gennaker e stavo facendo, baldanzoso, l’andatura. Sento
alla radio comunicare la notizia, da parte del comitato di regata, secondo cui in questa regata non
erano ammesse le vele colorate, ma solo le vele bianche. Quindi venni squalificato in tronco.
Non mi sembrava d’aver letto niente del genere nel bando di regata.
Lascio a voi ad indovinare chi vinse anche questa seconda tratta.
Al briefing serale fui una furia: dichiarai guerra totale ed aperta all’organizzatore, un “collega” !
Anche perché venivano alla luce altre scorrettezze: le escursioni terrestri bisognava pagarsele,
nonostante quanto promesso. I posti d’ormeggio erano sempre più di fortuna e disagiati. Le cene
prepagate, in quanto inizialmente dichiarate incluse nella quota d’iscrizione, abbiamo dovuto
ripagarle.
La mia vendetta si completò perché riuscii a piazzarmi primo nella classifica generale, alla fine di
tutto il percorso, nonostante partecipassero anche barche più grandi della mia (compresa quella
dell’organizzatore).
Ammetto di aver ingaggiato per l’occasione un’amico, skipper di professione, cui cedevo il timone
nei momenti più impegnativi.
Si sa che gli armatori sono troppo conservativi.
Oltre alla classifica interessa loro portare a casa la barca senza danni, quindi non potranno mai
spingere al massimo la propria creatura. Infatti quando non ero al timone soffrivo come una bestia
per gli azzardi che si permetteva il timoniere per far marciare al limite la mia barca.
Raggiunsi in quell’occasione un record di velocità, mai più eguagliato negli anni successivi: 15 nodi
in surf su un’onda con il mio gennaker di 160metri quadri (che, a furor di popolo, fu riammesso
come regolare). Velocità di tutto rispetto per una normale e tranquilla barca di serie di vent’anni fa.
Niente in confronto con le velocità che raggiungono ora le barche volanti dell’attuale American's
Cup.
Dev’essere questa mia prima esperienza a far giurare me stesso che non avrei più partecipato a
nessun’altra regata.
Sostenni in realtà motivazioni più ideologiche: troverei immorale che anche in barca a vela si
debba privilegiare la velocità, rispetto alla navigazione in se stessa e che, per questo, si debba 
gareggiare in competizioni allo spasimo contro gli altri.
L’andamento lento della vela, rispetto a qualsiasi altro mezzo, come quello a motore, è una
filosofia di vita, un godimento interiore che rifugge, per principio, da ogni battaglia armata contro
chicchessia

 

LA TEMPESTA DOMATA

Si parla spesso di guerra a proposito della lotta intrapresa contro il virus. Si dice: il dramma più grave dopo quello della seconda guerra mondiale.
Noi velisti invece l'abbiamo subito associato alla tempesta che talora ci ha sorpreso in mare. Sorprendentemente anche il Papa ha scelto tempo fa in piazza S.Pietro, nel suo "urbi et orbi" questa nostra metafora marina. Ha rievocato l'episodio descritto nel Vangelo della tempesta domata, in cui Gesù ha comandato al vento ed al mare di sedarsi.
Non me ne vogliano gli atei impenitenti ( talora impertinenti). Anche il Papà questa volta è con noi. Sue testuali parole: siamo sulla stessa barca. Atei, miscredenti e credenti (di qualsiasi religione) tutti riuniti nella stessa barca in una comunione d'intenti e di sentimenti nell'affrontare la tempesta che ci ha colti impreparati in alto mare con questo benedetto ( maledetto) virus. 
Ho letto anche recentemente dei testi magistrali su queste stesse pagine di amici velisti (una velista soprattutto) su come si debba comportare il comandante e la sua ciurma in questo frangente per arrivare sani e salvi in porto, assimilando le nostre drammatiche esperienze in mare con quella che stiamo vivendo tutti ora sulla terraferma. 
Reimpostare la rotta, altra terminologia utilizzata nei due ambiti, quello reale e quello figurato. 
Superiamola, questa prova, tesaurizzandone lo spirito di lotta ma anche di comunanza e solidarietà.

 

NAVIGAZIONE A VISTA


Era necessariamente la navigazione prudente di un tempo e dei tempi duri.
Anche oggi non più  cartografia digitale, non più Gps satellitari, ma torniamo al righello, squadra e bussola. Per fare il punto Nave e programmare una rotta riprendiamo l'uso della triangolazione a vista del "punti cospicui" a terra che riporteremo sulla cartografia di carta.
La metafora 
marina è sempre più calzante su come navighiamo sulla terraferma, di questi tempi.
Non ci possiamo permettere di "navigare" al largo, senza una meta ravvicinata, senza la possibilità di un rientro precipitoso...di sicurezza. 
E siamo grati al destino d'essere tornati comunque a navigare, seppure con tutte le limitazioni imposte.
Ci sforziamo d'accettare il nostro attuale vivere "sub condicione" valorizzandone gli aspetti riflessivi.
Ma la riflessione coatta può portare alla depressione (è tutta colpa mia) od alla paranoia (è tutta colpa degli altri).
Sarà solo la saggezza del marinaio navigato a farci barcamenare tra questi due estremi.

 

LA COLPA, DI CHI?


Quando capita a te qualcosa di spiacevole, per spiegartelo devi dare la colpa a qualcuno, a
qualcosa, Sei spinto alla ricerca della “colpa” ma anche semplicemente della causa, senza
colpevolizzare nessuno.
La malattia si presta più facilmente a questo esercizio di ricerca della causa e/o della colpa.
Qualsiasi malattia era vista un tempo come una colpa del singolo; il malato era un peccatore. “Chi
ha peccato, lui o i suoi genitori ?”. E’ un quesito che si trova già nei Vangeli.
E’ la depressione in cui cade il malato. “Perché la malattia abbia colpito me, devo aver sbagliato
qualcosa “. Devo aver mangiato troppo o devo aver mangiato qualcosa di avvelenato...qualcuno mi
ha voluto avvelenare. Il passaggio dalla ricerca scientifica della causa, della colpa interna ad un
tuo comportamento sbagliato, al sospetto della colpa altrui, di un malevolo nemico, il passaggio è
breve. Dalla depressione (è colpa mia) alla paranoia (è colpa dell’altro).
Tutti noi oscilliamo tra questi due poli, quando siamo in difficoltà nello spiegarci qualcosa
d’incomprensibile. Tutti noi oscilliamo tra questi due opposti comportamenti: autoaggressione od
eteroaggressione. “Pericoloso a sé ed agli altri”. Questa era la qualificazione che ne decretava la
reclusione in manicomio (criminale), quella del ...matto. E’ un dilemma teoretico ed un bivio
comportamentale. Contro di noi stessi o contro gli altri. Come ne usciamo?
Non era una soluzione quella dei manicomi chiusi, non lo è nemmeno quella del “liberi tutti”.
L’analogia presa dal mio ambito (quello psichiatrico) calza bene con quello più generale attuale,
quello pandemico. Il virus ce lo siamo procurato noi, con la deforestazione e l’inquinamento o ce
l’hanno procurato in laboratorio i nostri nemici.
Questo per quanto riguarda le “colpe” della sua nascita. E per la terapia? Reclusione ed
isolamento totale o parziale oppure liberazione controllata o meno?
I poli sono sempre due, positivo e negativo. Eterno bipolarismo tra destra e sinistra, tra Yin e
Yang in cui si gioca il nostro campo energetico.
Questa volta è in gioco la nostra salute, non solo mentale.

 

PIÙ FORTE DEL VIRUS

Spesso escono trionfanti dichiarazioni di campioni dello sport e della politica, non appena
superano la malattia del momento.
Non sempre sono incoraggianti per chi non ce la fa.
In questo momento di dolore per i più, provo pudore nel comunicare che anch’io ho vinto la mia
battaglia.
Non nei confronti del virus che continuo a temere più’ di altri, appartenendo alla popolazione più
fragile ed esposta. Ma nei confronti della “mia” malattia, di quella più’ invalidante rispetto alla mia
passione velica: da alcuni anni mi impediva di raggiungere in barca a vela la mia seconda patria, la
prima in senso nautico, la Grecia.
Alla ricerca in tutta Italia di una struttura che, dopo un primo fallimento, mi garantisse la più alta
probabilità di successo terapeutico, ne scelsi una senza sapere da chi fosse diretta. La mia buona
stella mi premiava: a dirigerla scoprii essere un greco. Era la Grecia che per riavermi come suo
devoto frequentatore, mi mandava un suo emissario, un medico che aveva sì maturato tutti i suoi
studi ed esperienza in Italia, ma che fosse d’origine greca.
Non vorrei ricorrere alla mitologia greca per tentare di trovare una spiegazione alla mia Dea
Fortuna.
Mentre imperversa una pandemia che sta quasi decimando la popolazione mondiale non posso
certo usare toni trionfali rispetto alla mia piccola vittoria ed a quella del mio grande medico greco.
Ma non posso non notare una coincidenza temporale: è avvenuta durante la tregua estiva
concessa dal virus agli ospedali, quella che ha permesso la riapertura delle sale operatorie agli
interventi programmati, precedentemente sospesi, come il mio.
P.S.
Per la cronaca, la mia malattia “era” una fibrillazione atriale parossistica, la procedura chirurgica
adottata si chiama ablazione cardiaca, il Direttore/operatore si chiama Sakis Themistoclakis
P.P.S.
Posso sciogliere la riserva...ed uscire dal riserbo che merita l’esito di ogni malattia perché in questi
giorni sono sei mesi da quando mi è stata applicata la “procedura”. Pare che solo sei mesi dopo
senza più crisi ci si possa considerare fuori pericolo.

 

LA BAMBINA DI CAPOVERDE

Una bambina, quella bambina di Capoverde, ha rappresentato forse la ricompensa migliore della
mia professione di medico.
Per una quindicina d’anni, per un mese all’anno, ho fatto il medico volontario in un ospedale gestito
dai Padri Cappuccini in un’isola sperduta di Capoverde ( Isola di Fogo).
Dopo essere stati dallo sciamano del paese, vi venivano portati spesso degli “indemoniati”, così
almeno venivano considerati. Ma affinché fossero i Frati Cappuccini ad intervenire, in quanto
esorcisti, piuttosto che i medici.
Ed è così che il Padre Cappuccino di turno accompagnò nel mio ambulatorio quel giorno, quella
bambina “posseduta dal demonio”. In questo ambito, ospedal-religioso, le mie specialità di
psichiatria e neurologia erano considerate molto affini alla loro attività di medici dell’anima.
Non potevo dar torto alla credenza popolare: la bambina era in uno stato pietoso e spaventoso. Si
presentava con un’agitazione incontenibile in un corpo sformato e sfigurato, da gettare nel timor
panico e nel sacro terrore chiunque. Ho dovuto subito sconsacrare e banalizzare la situazione: la
bambina era semplicemente affetta da un Stato di male epilettico consistente in crisi epilettiche
subentranti ed ingravescenti. Solo io potevo prendermene cura con i miei farmaci. Lo feci con
immediato beneficio sul suo comportamento. Programmavo una terapia protratta nel tempo. Per
questa bambina avrei spedito a Capoverde, una volta tornato in Italia, dei farmaci specifici e più
efficaci.
L’avrei rivista dopo due mesi di terapia. Per venire al programmato controllo medico, dovevano
sobbarcarsi un viaggio che durava giorni. Provenivano da un altra isola e, non potendosi
permettere un viaggio in aereo, dovevano affrontare lunghi e faticosi viaggi via mare.
L’incontro avvenuto appunto due mesi dopo con questa bambina (di 6 anni circa) mi ha lasciato un
segno indelebile, per il resto dei miei giorni. Forse il momento in assoluto di maggior gratificazione
professionale ed umana avuto in quarant’anni di esercizio.
La scena : lungo il corridoio dell’ospedale vidi in lontananza una bambina divincolarsi dai genitori e
correre verso di me. Ho stentato a riconoscerla, ho riconosciuto prima i suoi genitori. Raggiuntomi,
senza esitare mi salta addosso abbracciandomi stretto. Preso alla sprovvista risposi incredulo
all’abbraccio. Era diventata una splendida bambina, una bambina normale, piena d’affetto e
riconoscenza. Trattenni a stendo l’emozione...per dignità. L’avessi incontrata da sola per strada
non l’avrei riconosciuta.
Nei momenti più neri della mia vita professionale e non, il ricordo di questo incontro ha sempre un
effetto miracoloso.
Mi risana da ogni ferita

 

 

"CHE LA DIRITTA VIA ERA SMARRITA"

Assisto spesso ad oziose discussioni tra velisti inerenti l’utilità e/o la necessità di possedere una 
barca (a vela), invece che noleggiarla al bisogno.
Il possesso di una propria barca non è solo un avere contrapposto all’essere, una proprietà 
narcisistica fine a sé stessa. L’acquisto ed il mantenimento di una barca non è per definizione un 
“affare”. Non è mai un investimento economico. E’ certo che converrebbe, economicamente, 
noleggiarla la barca per lo stretto tempo necessario (in genere molto poco) al suo utilizzo.
L’avere una barca, crogiolarsela tutto l’anno, rappresenta un investimento simbolico, forse erotico.
Mi è capitato d’esprimere sull’argomento un’iperbole: per me la barca ha rappresentato e 
rappresenta l’investimento migliore della mia vita. Anche se il più antieconomico, ma forse proprio 
per quello. 
Sulla barca, come su ogni altra passione, s’investe tutto l’indicibile, i sogni proibiti, gli amori 
impossibili. Non si può pretendere di far ragionare un velista che vuole “farsi la barca”.
Rappresenta tutto ciò che c’è di irrazionale, d’inconscio.
Oltre al mondo reale c’è un altro mondo che ci sovrasta ma che c’illumina d’immenso, d’infinito. 
Appunto, un mondo senza confini che ci attrae irresistibilmente e che caratterizza la nostra 
dimensione sovrumana.
Ditemi se è poco..

 

A FIN DI BENE

Isola di Fogo nell'arcipelago di Capoverde : i Padri Cappuccini vi hanno costruito e gestito per oltre
vent’anni un Ospedale di livello Europeo. Per anni anch’io ho fatto parte del folto gruppo di medici
specialisti italiani che si sono alternati come volontari in questo ospedale.
Ho già fatto cenno delle gratificazioni professionali ed umane di cui ho fatto tesoro in questo
ospedale come missionario laico.
Andavo fiero oltre che della mia opera di medico anche per un brevetto che salvasse da quasi
sicuro annegamento chi avesse l’ardire di affrontare a nuoto l’oceano dalle bellissime spiaggie
dell’Isola. Le alte onde di risacca portavano al largo in un lampo anche provetti nuotatori.
Il “brevetto” consisteva semplicimente nell’affondare nella sabbia della spiaggia un’ancorotto cui
appendere una corda di una trentina di metri. Bastava legarsi saldamente alla sua estremità ed
affrontare in sicurezza l’oceano almeno in prossimita del bagnasciuga.
Durante le mie assenze dall’ospedale avrei lasciato in consegna la mia attrezzatura ad un fidato
operaio addetto alla manutenzione.
Ma al mio ritorno dall’Italia nessuno sapeva darmi notizia della mia attrezzatura di salvataggio.
Ho vissuto per oltre trent’anni con questo enigma irrisolto fino a quando in un fortuito incontro su
Facebook quella che allora era la direttrice amministrativa dell’ospedale “confessava” di essere
responsabile di quel “furto” ma “a fin di bene”, si giustificava. Con la complicità delle suore e dei
frati aveva destinata la mia lunga corda a suonare la campana della Cappella.
La mia fune di canapa nata per salvare i corpi veniva destinata “a fin di bene” per salvare le
anime.
P.S. Per gentile concessione della ladruncola, rea confessa, allego una foto che documenta
l’utilizzo corporale della corda di cui si parla

 

CAPITAN UNCINO

Un po’ Peter Pan ed un po’ Capitan Uncino. L’immaginario di ogni velista oscilla tra questi due miti. Peter Pan, l’eterno bambino, ed il suo acerrimo nemico, il più spregevole dei pirati, (o il più rude lupo di mare) il Capitan Uncino. 

Nel suo vagabondaggio ogni velista, eternamente alla ricerca dell’ “Isola che non c’è” impersona, alternativamente, ambedue questi personaggi, per loro natura agli antipodi ma conniventi. Uno ha bisogno dell’altro. 

Favoleggio da sempre d’essere discendente di un Corsaro Dalmata al soldo della Serenissima. Potrei esibire in proposito regolare documentazione (di dubbia attendibilità). 

Sicuramente (lo testimonia ora una documentazione clinica ineccepibile) da qualche giorno sono stato promosso a Capitan Uncino. 

È la seconda volta che la barca mi fa del male, sempre e solo durante la sua sosta invernale a terra, al sicuro sull’invasatura (sui trampoli, secondo un’espressione da me preferita). 

La postura più innaturale cui si possa condannare una barca a vela. 

Per questo ho sostenuto… l’altra volta (mandato in neurochirurgia per trauma cranico) e lo confermo ora (spedito in chirurgia plastica per minima amputazione indice mano sinistra), che la barca (femmina vendicativa) deve avermi punito, ancora una volta, per non averla lasciata a dondolare ed a gongolare nel suo elemento più consono. 

Per reagire a questa mia paranoia mi sono imposto un pensiero  positivo: finalmente potrò lucrare di una mia vecchia polizza infortuni. Con l’indennizzo che mi spetterà potrò magari cambiare barca. 

Sono un inguaribile sognatore sulla generosità delle nostre Compagnie assicuratrici, nonostante una recente disillusione in merito. 

Infatti  il mio dito monco vale, monetariamente, molto meno delle spese che dovrò sostenere per l’hivernage della barca in cantiere. 

La domanda sorge spontanea: vale troppo poco il mio dito o vale troppo la mia barca? 

Una domanda senza risposta, nessuna che io voglia accettare. 

Il valore di una barca a vela va ben oltre il suo valore monetario. 

Esiste una pervicace sublimazione della nostra insana passione velica. Altrove  ho già disquisito sul valore e sull’investimento simbolico che noi velisti operiamo, inconsapevolmente o meno, del nostro andar per mare. 

Un investimento, non solo economico, che non ha misura. 

Basterebbe pensare ai pazzi che ora stanno percorrendo l’ Around the word, (la Golden Globe Race Vintage) con barche di cinquant’anni fa, in solitario, senza scalo, senza assistenza e senza l’attrezzatura elettronica attuale. (Attualmente in testa alla “regata” è un mio coetaneo). Questi “pazzi” vorrebbero replicare l’epopea dei Chichester e dei Moitessier,, per intenderci, l’epoca epica, eroica e “romantica” per antonomasia. 

Un misto di romanticismo e di follia in cui il sentimento e l’anelito di libertà non ha confini né limiti. 

Perché mai anche noi, anziani acciaccati e mutilati, non potremmo emularli con sogni proibiti che non riusciamo a tacitare?

 

 

CONTROVENTO

Controvento, e non il vento in poppa, è l’andatura più  esaltante, la più ricercata dal velista impegnato.

L’andare a vela è sempre un azzardo contro gli elementi. Un’andatura trasgressiva ed eversiva è quella di bolina, talora sofferta, spesso impegnativa, ma sempre la più esaltante. 

È un andare “contro”, un controcorrente del tutto identitario del velista.

Sarà che non ho mai avuta confidenza con lo spinnaker, sarà che ho odiato l’assetto con i fiocchi gemelli scelto dall’armatore nella traversata dell’ Atlantico, per il suo fastidioso e persistente rollio.

Ma l’andatura considerata una volta la più favorevole (anche perché l’unica possibile con le vele di allora) cioè con il vento in poppa non mi ha mai interessato.

 L’andare a vela là dove ti porta il vento per me ha sempre voluto dire “andare contro” il vento. 

La bolina stretta è il massimo della mia aspirazione, quella in cui provo un brivido, quasi un orgasmo cui non rinuncio ancora, nonostante dovesse essere precluso alla mia età...matura.

Quando poi la stanchezza prende il sopravvento indulgo ad allargare la bolina fino ad una rilassante andatura al gran lasco. 

Qui però si raggiunge una facile lussuria, questa sì peccaminosa.

Ma non un peccato contro natura, come la bolina, che rimane il “peccato” per antonomasia del vero velista.

Siate peccatori ad oltranza.

 

 

NEOFITI VELISTI

Si lasciano esaltare (ingannare) dai nostri  proclami poetici  del tipo “va dove ti porta il vento”, poi ti chiedono di farsi portare (a motore) nelle baie più deserte ( e magari meno ridossate) per il bagno di rito. All’imperativo assoluto “solo baie , mai porti” saprebbero sacrificare ogni senso della realtà, salvo poi adeguarvisi in extremis con grande frustrazione.

Meno retorica da parte nostra (velisti navigati) forse sarebbe doverosa per facilitare un approccio dei nuovi adepti.

Queste mistiche considerazioni mi son sgorgate dall’ultimo gruppo di “neofiti velisti” che ho avuto a bordo. Naturalmente avevano negato, prima dell’imbarco, che fosse la loro prima volta.

La dura realtà l’han dovuta affrontare già dopo il primo giorno di navigazione: intasamento del cesso. Nonostante le mie istruzioni sul suo corretto utilizzo il danno era irreparabile tanto da doversi smontare e sostituire. Prima giornata di m. Seconda giornata: precipitosa ricerca di un porto dove integrare la cambusa, fatta evidentemente in modo frettoloso. Ed avevano dichiarato  di voler sempre confezionare i pasti a bordo, escludendo il ricorso a ristoranti.

Si evidenziava subito Il conflitto tra le aspirazioni ideali di approdare ogni giorno nella baia perfetta, di voler andare sempre a vela e la necessità di rispettare una tabella di marcia obbligata (naturalmente a motore) per attuare in tempi certi il percorso programmato.

La frustrazione dell’equipaggio si sommava alla mia nel momento in cui mi vedevo costretto a sconfessare i propositi d’inizio stagione: d’imbarcare solo ospiti che avessero con me potuto aspettare il vento se non c’era e di non coartarmi in tempi e rotte obbligate.

“Mai più”. Farò il solitario se non troverò amici che non avranno il mio tempo ed i miei tempi ( e quello del vento).

 

 

LEPROTTO FELPATO 

La coppia che scoppia è una delle possibilità previste nella vita di barca. Chi, come me, ha navigato per anni con gli equipaggi più cangianti ed improvvisati ne può raccontare di belle sull’argomento. Le coppie stabili si...stabilizzano, le coppie instabili si destabilizzano. Questa è una regola quasi assiomatica. Migliore fortuna hanno le “coppie” sconosciute all’imbarco e che si accoppiano in itinere. 

Ma nel bene e nel male tutto viene amplificato, talora con “coupe de theatre”.

S’imbarcò anni fa nella mia barca una coppia (all’apparenza tale all’imbarco) nel porto di Monastir (Tunisia). La navigazione prevista era impegnativa ma sarebbe stata piena di soddisfazioni, velisticamente parlando.

Si doveva arrivare a Corfù con tappe intermedie a Lampedusa, Malta, Siracusa, Catania, Roccella Ionica, Crotone, Leuca, Otranto.

Un possente maestrale non ci abbandonò mai, per cui la cavalcata tra Africa, Malta, Italia e Grecia esaltò tutto l’equipaggio e non potevo prevedere dissidi all’orizzonte. Ma la sorpresa era alle porte. Vi era tra l’equipaggio un altro “armatore” oltre al sottoscritto che, costretto ad ammettere la performance della mia barca, non poteva esimersi dal fare confronti con la sua lasciata all’ormeggio. Tanto più che doveva difendere il suo onore e quello della sua barca difronte alla donna con la quale si presentò accoppiato. Non so se questo sia stato il principale motivo di squilibrio tra i due. Fatto sta che qualcosa doveva incrinarsi tra di loro. L’anticipazione l’avevo avuta la sera prima. La donna venne a cena con l’equipaggio senza il “suo” uomo. Ma nulla faceva presagire quanto sarebbe successo la mattina dopo.

Al mio risveglio trovo un bigliettino a me indirizzato sul tavolo della colazione. Era dell’ “uomo” scomparso nottetempo. Aveva abbandonato con passo felpato la barca senza svegliare nessuno, nemmeno la donna con la quale condivideva la cabina. 

Nel messaggio scritto lasciatomi si scusava per il repentino abbandono, fatto senza alcun preavviso e senza salutare nessuno. Ma io avrei dovuto capire, si leggeva, se non come marinaio, come uomo(?). Doveva andarsene da quella donna e da quella barca in un modo così plateale, quanto imprevedibile.

Venni a sapere che la frattura tra i due risultò definitiva, nonostante che la ragazza, dopo averci accompagnati alla meta, si precipitasse dal suo uomo raggiungendolo nella sua barca, nel suo porto di armamento. 

Si sarebbe resa colpevole di lesa maestà e di alto tradimento: aveva mostrato di preferire la mia barca rispetto alla sua, molto più modesta.

Dovetti ammettere la mia inconsapevole ed incolpevole (?) corresponsabilità per questi cuori infranti.

Di quanti drammi manifesti o meno sono stato testimone! 

Pare sia un prezzo da pagare per bilanciare la felicità allo stato puro dei più fortunati.

 


L'APOTEOSI,  LA BARCOLANA 50

La domenica prima, la Coppa Bernetti, fiore all’occhiello della nostra società, la Pietas Julia. 

La domenica dopo, è quella della Barcolana 50. 

Un’apoteosi, la migliore di sempre anche per me (ne ho fatte 40). 

Dal mare, dalla terra, dal cielo o dalla TV, comunque è stato uno spettacolo unico al mondo di cui dobbiamo andar fieri tutti, triestini ed italiani.

Ho visto molti video celebrativi, curati sia da istituzioni pubbliche che da privati cittadini. Una gara nella gara. Stanno contagiando anche i non addetti ed i non appassionati. 

Una regata che non è una regata, in senso rigoroso, ma una festa popolare in cui i mostri di regata partono all’unisono con le nostre barchette che non hanno pretese agonistiche. 

Una lezione politica ai nostri governanti di come la nautica sia uno sport ed un divertimento anche per un popolo non ricco sfondato. 

La nautica dei ricchi forse sarà quella dei primi arrivati, ma anche quella è una nautica di lavoratori al soldo di chi cerca esposizione per il bene della propria impresa, anche questa fatta di lavoratori. 

La vela in se stessa ha un’etica ed un’estetica che riscatta qualsiasi business. 

Il riscatto è di un’intera città: anche le vecchiette qualunque ne parlano con la luce negli occhi. Basta sentirle come ne parlano durante la settimana che precede l’evento. Gli spettatori che assistono da terra, velisti e gente comune, potrebbero riempire uno stadio da calcio. 

La Barcolana vera è quella di chi non potrà mai arrivare primo. Si tratta di qualche migliaio (quasi tremila) che seguono i primi, le nostre barche da “diporto”, molte nemmeno di proprietà ma prese a noleggio per l’occasione da tutta Italia e dall’estero. Questa sí è la nautica popolare. 

Cultura, economia, politica, poesia e sentimento, questo è un mix che esalta grandi e piccini, ricchi e poveri, bambini ed i diversamente giovani. 

Mi sorprendo di come anch’io sono ogni anno edificato esaltato e contagiato dal clima che si respira in questi giorni. Quest’anno poi, per il suo cinquantesimo genetliaco, ha superata ancora una volta se stessa. 

Marina Militare (Amerigo Vespucci), Aeronautica Militare (le Frecce Tricolori), forze di terra, mare e cielo: una festa corale che ha riunito e rappacificato tutti. 

Questa è l’Italia unita cui sentiamo di appartenere. 

Il miracolo si compie ogni anno, da mezzo secolo ormai, la seconda domenica di ottobre.

 


LA VELA  DEI DISPERATI 

Mi son chiesto spesso se chi va a vela lo faccia per aspirazione o per disperazione.

Questo dubbio amletico tormenta anche il sottoscritto. Prima di partire ogni primavera per il mio semestre sabbatico velico mi chiedo se lo faccio per scelta o per una specie di condanna interiore.

Mi capita anche di ospitare a bordo persone più…disperate di me. Il giovane diciottenne appena diplomato che, volendo sfuggire alla condanna di dover iscriversi all’università e seguire un percorso di vita obbligato, chiede di dedicarsi alla vela come “scelta” di libertà.

Il disoccupato o cassaintegrato che non aspira nemmeno d’essere integrato o reintegrato nel mondo del lavoro e vorrebbe continuare a barcamenarsi con me. Ho avuto anche “allievi” che dopo essere stati con me si sono dedicati quasi a tempo pieno alla vela agonistica.

La persona che ultimamente mi ha più colpito e sorpreso (piacevolmente) è Michele.

Un ingegnere in carriera che è stato folgorato (come SanPaolo sulla via di Damasco) da una conversione alla vita essenziale. Si è licenziato dalla ditta presso cui lavorava, ha venduto casa, auto e tutti i suoi averi. Ha regalato tutti i suoi vestiti alla Caritas ed

è venuto in barca con me  (la sua prima volta in barca a vela) con il chiaro proposito di mollare tutto e partire per il mare infinito.

Nell’introdurlo ai primi rudimenti della vela, l’ho studiato bene durante tutto il mese che è stato con me. Non era un disperato. Anzi, trasudava serenità e rappacificazione con se stesso e gli altri. Gioviale e socievole contagiava chiunque per la sua tranquilla sicurezza e consapevolezza nel voler fuggire dal mondo civile. Senza che fosse una fuga ma una scelta di vita lungamente maturata. Quasi una scelta mistica di pace interiore, che non veniva minimamente scalfita dai nostri tentativi di riportarlo alla ragionevolezza della gente comune.

Ed è partito due anni fa. L’ho rivisto qualche giorno fa nel suo primo fugace rientro in patria. Per entrare nel mondo dei…”disperati” ha seguito il mio consiglio di farsi trovare a fine novembre a Las Palmas De Gran Canaria in occasione dell’annuale partenza dell’ARC ATLANTIC. Trovò infatti lì il suo primo armatore giramondo.

Mi ha fatto un sintetico resoconto della sua vita avventurosa nel mar caraibico e dintorni. Key West, Cuba, Haiti, Jamaica, Colombia, Nicaragua, Panama, Puertorico, Virgin Island, Antille, Martinica, ecc.

Non l’ho rivisto minimamente pentito della sua scelta di vita, anzi confermato e confortato  con ancor maggior tranquillità. Provato ma felice d’aver dovuto superare talora prove estreme, ha mostrato quasi commiserazione nei nostri riguardi perché rimasti a languire nel …mondo civile.

 


ARTURO, L’INNAMORATO

C’era un volta Arturo, L’innamorato.

Un giovane di buona famiglia e di belle speranze che non conosceva il mondo, né le femmine.

Coccolo di mamma che lo preserverà dalle lusinghe del peccato e dalle tentazioni dei futili desideri. Nell’età dello sviluppo lo rinchiude in una serra riservata in cui i virgulti immacolati potessero espandersi in modo controllato e vigilato nel rispetto di leggi e regolamenti comandati.

La madre di Arturo, alla maggiore età dovette  lasciarlo libero o quasi. Una libertà vigilata. L’imperativo categorico derivante dalla sua formazione imponeva di perseguire la salvezza dell’anima, meno quella del corpo. Una vita piena d’impegno e dedizione, senza distrazioni ed in piena solitudine.

Un giorno però venne che Belzebù, il diavolo tentatore, ebbe la meglio sui sacri principi di Arturo.

In preda ad un irrefrenabile impulso peccaminoso, dovette inforcare la bicicletta e fuggire dalla protezione di mamma e di madre chiesa. Raggiunse il frutto proibito. Il mare. Un giovinastro glielo suggerì come preda ambita per chi tentasse la conquista dell’altro mondo che gli era stato fin lì nascosto: l’universo femminile. Solo al mare si potevano sbirciare le donne ignude, o quasi.

Tutto invano, non lo attrasse l’esibizione della carne, bensì la vista di un essere inanimato che giaceva sul bagnasciuga. Immobile, ma che anelava d’uscire al largo, con ampie lenzuola (che sentì chiamare vele) che svolazzavano irrequiete al vento. Rapito da quella visione, s’imbarcò inconsapevole in quella “cosa”  (che chiamavano appunto barca), attratto da una forza misteriosa che lo spingeva e guidava ad un atto inconsulto ma obbligato.

La riconobbe subito: era Irma la dolce. La barca della sua vita, non si lasceranno più.

Solcarono i marosi della vita. Per lei abbandonò lavoro e famiglia. Affrontò il mare aperto, molto aperto. Lo sciabordio delle onde sullo scafo fu la musica di fondo del loro idillio. Il mare di casa non era sufficiente a saziare la sua fame d’infinito e quella della “sua” Irma.  Affrontarono gli oceani in un continuo susseguirsi ed alternarsi di movimenti chiamati rullio, beccheggio  e brandeggio.

Ma la navigazione non era il solo momento di felicità. Il prendersi cura di Irma comportava un impegno costante alle sue necessità anche  nei momenti di riposo sulla terraferma. Talora si riparavano le ferite subite o si dedicava ai preparativi per le successive battaglie con il mare che spesso sembrava ostile.

Arturo non badava a spese nel prepararla al meglio e nel dotarla di tutte le ultime sofisticate attrezzature tecnologiche.

Dopo anni di fughe solitarie con la sua Irma, giunse il momento in cui bisognava presentarla alla buona società, all’alta società. Per la festa di gala bisognava metterla in lungo. Un gran vestito che la coprisse integralmente, da capo a piè, da prua a poppa, e che ne esaltasse le forme e la portanza. 

Si chiama “cagnaro”, termine poco poetico forse, ma che servirà  a preservarla in tutta la sua beltà durante l’inverno entrante, dalle intemperie e da ogni inclemenza del tempo e dei tempi.

Pur attraccati alla terraferma, la poesia la ritrovano anche all’ormeggio. Il fruscio del plancton sullo scafo ricorda loro quanto sia ancora vivo il mare.

Il mare sconfinato continuerà ad aspettarli al largo, appena passata l’attuale tempesta che imperversa in ogni angolo della terra.

 

 

PREMESSA PERSONALE, MOLTO PERSONALE

"Radicalchic con barca a vela". In questi termini ho visto nei giorni scorsi connotare negativamente un noto personaggio politico.

Avendo anch'io una barca a vela, spero di rappresentare un modello agli antipodi.

Nato nella bassa padana da una modesta famiglia di agricoltori, la mia prima esperienza nautica, in tenerissima età, fu un naufragio nelle gelide e notturne acque del fiume Adige. Sono stato salvato dalle acque con una rete da pescatore.

Un truma infantile che mi segnerà a vita nel mio rapporto con ogni elemento liquido, fiume, lago mare.

Neolaureato in Medicina, un mio primo paziente mi regala una deriva in legno autocostruita, con le le vele ancora in cotone.

Con questo improbabile mezzo nautico inizio autonomamente la mia esperienza velica, guadagnando prima il lago poi il mare...senza sapere nuotare.

La mia folle passione per la vela nacque cosí, fortuitamente, e come una sfida alla mia paura più innata, quella verso l'acqua . Forse determinante fu l'altro elemento, il vento che nell'acqua  genera il movimento.

Da allora la mia "carriera" velica, cosí com'era iniziata, progredirà curiosamente in parallelo con quella professionale, per la complicità di una serie di fortuite coincidenze.

Vengo chiamato a lavorare nel Manicomio (si chiamava ancora cosí) di Gorizia, al confine con l'allora Iugoslavia.

La mia iniziale perplessità nell'accettare un incarico cosí lontano ed ai margini, fu superata solo dal fatto che nella vicina Monfalcone avevo  frequentato qualche anno prima  un corso per derive a vela, full immersion , in una delle due scuole residenziali allora esistenti, la Tito Nordio. L'altra era quella di Caprera.

Mi trasferisco a Gorizia con sul tetto dell'auto la mia insolita deriva. 

Il lavoro come psichiatra procedeva bene, tanto che il Manicomio si trasformava in Ospedale Psichiatrico. Era giunto il momento in cui potevo permettermi il mio primo cabinato a vela, anche perchè la famiglia nel frattempo era cresciuta di qualche unità. Un usatissimo 6,70 metri, acquistato da un tedesco. Paloma il suo nome. È stato il mezzo con cui la famiglia intera avrebbe trascorse tutte le proprie vacanze nei successivi dieci anni. Raggio d'azione, limite di navigazione, il Golfo di Trieste e l'Istria occidentale.

Prime gioie e molti dolori : Visita della Guardia di Finanza in quanto "Ricco proprietario di Yacht" ed auto affondamento nel suo porto di armamento, per uno scorretto montaggio della pompa di sentina, Questo mio primo cabinato a vela mi provocò anche un pericoloso contatto ravvicinato sia con il Codice Civile che con quello Penale.

Nonostante tutte queste traversie , questa prima barca, come le successive, mi ha salvato dalla schizofrenia.

 Esausto del  lavoro con i miei matti, spesso fuggivo loro, anche per una breve uscita in solitario con la mia barchetta. Riacquistavo magicamente una più sana e vitale  visuale della realtà. Come se solo al largo ritrovassi il senso della prospettiva.

Una promozione di carriera mi permette l'acquisto di un 25 piedi (quasi 8 metri). La Columbia. I miei acquisti saranno sempre di barche di seconda, terza mano, ed anche più. 

Il lavoro come psichiatra è senpre stato il più malpagato nella Sanità Pubblica.

Con la Columbia ho potuto finalmente superare la Costa Istriana ed attaversare il Quarnaro fino a Lussin Piccolo. Non più in là.

Arrivavo all'apice della carriera: Direttore dell'Ospedale Psichiatrico Provinciale di Gorizia e poi Coordinatore del Dipartimento di Salute Mentale. A quel punto mi potevo permettere addirittura un 35 piedi. Con questa barca arrivavo fino a Spalato ed all'isola di Hvar.

Ci fu però un' improvvisa battuta d'arresto nella progressiva conquista del fatidico metro in più di lunghezza delle mie imbarcazioni.

Un cancro che nei tempi andati non avrebbe lasciato scampo, ma  che ai nostri giorni, con il progredire della scienza medica, mi ha permesso di sopravvivervi , fin'ora, da quasi trent'anni.

Dopo questa forte esperienza ho avvertita l'esigenza di voltar pagina.

 Avevo avute in precedenza altre occasioni per "tornare a casa" : proposte di posti direttivi di prestigio nel "mio" Veneto. Avevo sempre rinunciato per il solo pensiero di dover abbandonare la mia barchetta  nel porto di Sistiana, comoda com'era a pochi chilometri di distanza dalla mia sede di lavoro e dalla mia abitazione.

La malattia mi aveva però aperto gli orizzonti, 

I miei figli erano diventati grandi tanto da doversi iscriversi all'Università e la moglie, pure medico, fremeva dalla voglia di raggiungere anche lei  l'apice della carriera, diventare anche lei Primaria . Questo era possibile solo nel Veneto. 

Ci trasferimmo nella città d'origine a Padova, dove nel frattempo io avevo vinto il mio concorso di Primario e la moglie il suo, nelle immediate vicinanze. 

Per lunghi dieci anni  la situazione si stabilizzava. I figli si laureavano. 

Tra i benefici secondari dell'esperienza cancro annovero quello di aver scoperto, inaspettatamente, il piacere di scrivere al di fuori della mia professione. Sono diventato scrittore,con un "romanzo" autobiografico sulla mia malattia. 

Da allora non ho più pubblicato nulla nel mio ambito professionale, bensí solo di vela su riviste del settore e sui blog di Circoli velici.

In ogni caso ho dovuto prender atto che la mia voglia di "voltar pagina" non si era esaurita, con un semplice trasferimento.

Mi convincevo di aver "già dato" abbastanza alla famiglia (tre figli con laurea) ed alla Società (trent'anni di frequentazione ravvicinata con la malattia mentale, degli altri ?).

Volevo coronare il sogno proibito di ogni velista: il giro del mondo a vela.

Chiedo ed ottengo il pensionamento anticipato, all'età di 57 anni, età in cui generalmente un medico, all'apice della propria carriera ed in una sede prestigiosa come la città di Padova, mette maggiormente a frutto ( sia professionalmente che economicamente) tutta la sua esperienza.

All'indomani mi trovo già a Las Palmas (Canarie) dove un amico armatore mi aspettava per la Regata dell'ARC, che ogni anno alla fine di novembre accompagna tutti coloro che vogliono andare dall'altra parte in compagnia.

Eravamo nel 2001, ultimo anno della Lira, due mesi dopo l'11 settembre che sconvolse il mondo.

Ed io partivo con la barca, un robusto 57 piedi, che una volta testato positivamente nella traversata dell'Atlantico avrei acquistato per proseguire l'Around the World .

Viceversa, una volta arrivato nell'isola di Guadalupe ed essermi barcamenato nei Caraibi per qualche settimana, rinuncio all'acquisto di quell'imbarcazione o di una simile, rinuncio a completare il giro del mondo e torno a casa ...vigliaccamente in aereo.

Dopo il fallito giro del mondo, raggiungo un compromesso con me stesso, la mia famiglia e la mia professione. Sei mesi (quelli estivi) in barca e sei mesi di rinsavimento borghese. Fifty-Fifty.

Finalmente "ricco" dell'Indennità di fine servizio, acquisto prima un 43 poi un 47 piedi ( l'attuale) con i quali ogni anno navigo in lungo e largo il Mediterraneo.

Non so se ho superato il panico infantile verso l'elemento acqua, non sono sicuro nemmeno d'aver imparato a nuotare. 

Certamente so che ogni barca diventa  culla ed alcova,  madre ed amante ed il mare, mediterraneo od oceano,  padre ed amico.

P.S.

Verona. 

È stata la città che mi ha salvato dalla mia malattia. All'ultimo piano del Policlinico Borgo Roma mi hanno curato e "guarito". 

Al mio ritorno nel Veneto dal Friuli Venezia Giulia, Verona è stata la prima ad accogliermi . Vi ho vinto un primo concorso di Primario, una settimana prima di vincerlo anche a Padova.

A Verona ho trovato il mio Editore che ora mi fa l'onore di essere annoverato trai i suoi più prestigiosi autori.

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Ultimi scritti

DISTANZIAMENTO ED ISOLAMENTO SOCIALE

 

Nell’immaginario collettivo, la vela è stata ai primordi  l’esaltazione della solitudine. I primi grandi velisti erano dei solitari come gli eremiti. Presso il grande pubblico sono state le gesta dei primi grandi velisti solitari ad avere sdoganata la vela come sport estremo, primitivo e quindi popolare. 

Un rilancio imprevisto verso la vela solitaria avviene oggi dalla considerazione che è l’unico sport a garantire il rischio zero del contagio da virus.

Il distanziamento ed isolamento sociale nell’acqua salata è la massima garanzia di un’asepsi totale e duratura.

Quella del velista solitario è una vocazione originaria che viene oggi esaltata dalla necessità di assicurare una tranquilla ed ascetica sopravvivenza.

Non mi esporrò più al ludibrio pubblico nell’offrire un libero imbarco od un imbarco “alla pari” diversamente inteso.

Farò il velista solitario per una libera scelta ovvero per una “libera conversione” ad una rinnovata religione, quella dell’eremita del mare.

Sarà una vita di stenti, piena di pericoli ma anche di soddisfazioni che mi garantirà però la vita eterna.

 
SONO UN GESUITA MANCATO OD UN VELISTA FALLITO?

Non lo sono, ma ho rischiato di diventare un prete gesuita. E magari contendere il soglio pontificio a Papa  Bergoglio, il primo papa gesuita della storia. Ma questa è un’altra storia.
Mi son ricordato del mio passato pretesco, dovendo parlare della mia ...carriera militare, perché quello dei gesuiti è l’ordine religioso più “militare” (Sant'Ignazio di Lojiola, il fondatore dell'ordine, era un soldato). Si’, ho fatto il militare quando era d’obbligo la leva militare. Sono stato un ufficiale dell’Aeronautica (Sottotenente di complemento), ma avrei voluto assolvere tale obbligo arruolandomi in Marina, peccato che allora l’arruolamento prevedesse almeno 24 mesi.
Mi sentivo più marinaio che aviatore, perché era l’epoca in cui iniziava la mia passione per le barche a vela ed il mare.
Ma mi sentivo comunque un soldato nell’intimo. Per l’impegno militaresco che mi è stato inculcato in 10 anni di frequentazione in una scuola di gesuiti. Un impegno di vita che mi accompagnò e...facilitò nella mia carriera professionale.
Primario a 27 anni e Direttore a 30, forse solo un mostro di intelligenza e bravura poteva raggiungere simile exploit. Al contrario, sono convinto di non averlo del tutto meritato questo successo. A meno che qualcuno, conoscendo il mio passato gesuitico, mi volesse considerare un predestinato a grandi imprese. Ma fin da bambino mi consideravo uno degli ultimi, condannato ad un’esistenza grama e precaria. Malaticcio, fui oggetto di attenzioni e protezioni fin dalla nascita. Ed appena raggiunta l’età scolare, credevo d’essere destinato, come massima aspirazione dell’ambiente contadino da cui provenivo, ad una modesta e nascosta carriera ecclesiastica.  Riuscii a perdere anche questa opportunità, tanto agognata da mia madre, segnando così uno dei primi e più cocenti insuccessi: fui bocciato, dopo lunghi anni di seminario, all’esame di vocazione sacerdotale.
Nemmeno il prete ero in grado di fare. Forse almeno il missionario laico: come studente di medicina cercai infatti di ipotecare l’esercizio della mia futura professione destinandolo in un lontano e sconosciuto paese dell’Africa. Appena laureato sceglievo poi Psichiatria, la specialità medica più negletta e meno prestigiosa, quella che mi avrebbe condannato a vita in manicomio, forse non solo professionalmente. Le scelte della mia vita erano sempre ispirate più che da altruismo, da un insano ed innato nichilismo. Non brillavo per i miei successi, semplicemente mi  nascondevo in una “aurea mediocritas” che fu scambiata per umiltà ed innocuità. Fu più per questo forse, e non solo per merito, che inaspettatamente riuscì a spuntarla in un ambiente tra i più competitivi e litigiosi, quello medico. Ben presto (troppo presto) fui così investito  controvoglia di incarichi direttivi di massimo livello che segnarono la mia fortuna, ma anche la mia condanna. Come un bambino che ha dovuto crescere in fretta, ma che non ha potuto vivere la propria giovinezza, condannato com’era a fare l’adulto anzitempo.
E che dire della mia vita sentimentale?
Tramontato il celibato, cui ero inizialmente destinato, dovetti accettare una donna, la prima, che non fosse troppo donna secondo gli standard allora in voga e che somigliasse in tutto e per tutto a mia madre, che mi avrebbe voluto prete.  Una donna forte e direttiva nei riguardi della quale io avessi potuto perpetuare il mio sentimento di inferiorità ed inadeguatezza nei confronti non solo del genere femminile, ma anche quello nei confronti di tutto il genere umano, ma che mi ha dato tre figli e, a scalare, cinque nipoti.
E fu per questo che, cresciuto troppo in fretta, o non cresciuto affatto, abbandonai, sempre anzitempo, la professione e forse la famiglia per dedicarmi, almeno nelle intenzioni, ad una vita disperata tra i “disperati” dell’epoca moderna. Mollare tutto per l’ultimo  viaggio con il giro del mondo in barca a vela. Il mezzo più lento, scomodo ed insicuro. Fallii anche questo “ultimo” atto eroico. Attraversato l’oceano (il primo) me ne tornai vigliaccamente in aereo.
Fallito come velista, come medico e come uomo. O no?
P.S.
No, è una chiara provocazione questo paradossale resoconto di una vita  che è stata in realtà  piena e soddisfacente in tutti e tre i citati versanti.
Voleva essere un modo inusuale per presentarmi : sono o non sono “il pensionauta folle” ? (il mio ultimo libro, Il Frangente editore)
 

IL PENSIONAUTA FOLLE

Una Premessa personale, molto personale

 

"Radical chic con barca a vela", in questi termini nei giorni scorsi è stato connotato negativamente un noto personaggio politico.

 

Avendo anch'io una barca a vela, spero di rappresentare un modello ai suoi antipodi.

Nato nella bassa Pianura Padana da una famiglia di agricoltori, la mia prima esperienza acquatica, in tenerissima età, è un naufragio nelle gelide e notturne acque del fiume Adige. Vengo salvato con una rete da pescatore.

Un trauma infantile che mi segna a vita nel mio rapporto con ogni elemento liquido, fiume, lago, mare.

Neolaureato in medicina, il mio primo paziente mi regala riconoscente una deriva in legno autocostruita, con le vele ancora in cotone. Con questo improbabile mezzo nautico inizio spavaldamente la mia esperienza velica, guadagnando prima il lago poi il mare... sempre senza saper nuotare.

La mia folle passione per la vela nasce così, fortuitamente, come una sfida alla paura infantile verso l'acqua. Sarà il vento il più grande alleato in questa sfida. Lui che   da decenni ormai fa volare sull’acqua la mia barca, danzando pericolosamente senza fine con la mia paura, mai del tutto sopita.

La mia improbabile carriera velica, così com'é iniziata, progredisce curiosamente in parallelo con quella professionale, per la complicità di una serie di fortuite coincidenze.

Vengo chiamato a lavorare nel manicomio (si chiamava ancora così) di Gorizia, al confine con l'allora Iugoslavia.

La mia iniziale perplessità nell'accettare un incarico così lontano, ai margini della mia terra veneta, viene superata solo dal fatto che nel golfo di Trieste, regno della Bora, ho frequentato qualche anno prima un corso per derive a vela in una delle due scuole residenziali allora esistenti in Italia, la Tito Nordio di Monfalcone.L’altra era quella di Caprera.

Mi trasferisco così a Gorizia , a venti minuti da Monfalcone e dallo splendido golfo di Trieste, con  la mia insolita deriva sul tettuccio dell’auto. 

Il lavoro come psichiatra procede bene, mentre il manicomio si trasforma in Ospedale Psichiatrico e poi in Centro di Igiene Mentale. Posso permettermi ora il mio primo cabinato a vela, un usatissimo 6,70 metri acquistato da un tedesco. Paloma il suo nome. Per dieci anni il mio limite di navigazione resta il golfo di Trieste e l'Istria occidentale.

Prime gioie e molti dolori: visita della Guardia di Finanza in quanto "ricco proprietario di yacht" e autoaffondamento della Paloma nel porto di armamento (Sistiana) per lo scorretto montaggio della pompa di sentina. Questo mio primo cabinato a vela mi provoca  poi pericolosi contatti ravvicinati sia con il Codice Civile che con quello Penale.

Nonostante le sue molte  traversie, quella prima barca, come le successive, credo mi abbia salvato dalla schizofrenia.

Esausto per il lavoro con i miei matti, spesso fuggivo con la mia barchetta, anche solo per una breve uscita in solitario. Riacquistavo magicamente una più sana e vitale visione della realtà. Come se solo al largo potessi ritrovare il necessario senso della prospettiva.

Una promozione  mi permette l'acquisto di un 24 piedi, (alias 8 metri). la Columbia, anch’essa di seconda mano (il lavoro di psichiatra è sempre stato il più malpagato nella sanità pubblica). Le mie barche saranno sempre di seconda, terza mano e anche più. 

Con la Columbia posso finalmente lasciarmi a poppa la costa istriana e attraversare il Quarnaro fino a Lussin Piccolo. Non più in là, perché I miei giorni di ferie non bastano…e neppure la barca.

 Arrivo all'apice della carriera: direttore dell'Ospedale psichiatrico provinciale di Gorizia e poi coordinatore del Dipartimento di salute mentale. A questo punto posso permettermi addirittura un 35 piedi (alias 11 metri) , per arrivare fino a Spalato e all'isola di Hvar.

C’è però un'improvvisa battuta d'arresto nella progressiva conquista del fatidico metro in più, croce e delizia di ogni navigante: un cancro, che nei tempi andati non avrebbe lasciato scampo, ma che grazie al progredire della scienza medica mi permette di sopravvivervi finora, da trent'anni ormai .

Dopo questa forte esperienza ho avvertito l'esigenza di voltare pagina e tornare a casa, nel "mio" Veneto.

Avevo in effetti  avuto in precedenza alcune occasioni per rientrare, anche con proposte di prestigio. Ho sempre rinunciato al pensiero di dover abbandonare la mia barchetta nel porto di Sistiana, così comodo a pochi chilometri dall’ospedale e da casa. 

La malattia mi apre gli orizzonti, ma mi fa desiderare al contempo il recupero delle radici. Mi trasferisco così a Padova, la città da cui ero partito.

Tra i benefici secondari l'esperienza del cancro annovera quello di avermi fatto scoprire inaspettatamente il piacere di scrivere su argomenti non professionali. Mi ritrovo scrittore, con un romanzo autobiografico sulla mia malattia. 

Da allora non pubblico più nulla di psichiatria, scrivo solo di vela, su riviste del settore e sui blog  di circoli velici. In ogni caso devo prendere atto che la mia voglia di voltare pagina non si è esaurita con un semplice trasferimento.

Mi convinco di aver già dato abbastanza alla famiglia, con tre figli laureati e alla società, con trent'anni di frequentazione ravvicinata della la malattia mentale (...degli altri?).

Voglio coronare il sogno proibito di ogni velista: il giro del mondo.

Chiedo e ottengo il pensionamento anticipato a cinquantasette anni, quando generalmente un medico, all'apice della propria carriera e in una sede prestigiosa come la città di Padova, mette maggiormente a frutto, professionalmente ed economicamente, tutta la sua esperienza.

L'indomani mi trovo già a Las Palmas, dove un amico armatore mi aspetta per la regata dell'ARC, che ogni anno alla fine di novembre raccoglie alle Canarie tutti quelli che vogliono andare dall'altra parte dell’Atlantico in compagnia.

Siamo nel 2001, l’ultimo anno della lira; due mesi dopo l'11 settembre sconvolgerà il mondo. E io  parto con un robusto 57 piedi che, una volta testato positivamente in Atlantico, avrei acquistato per proseguire l'around the world.

Viceversa, dopo aver faticosamente raggiunto l'isola di Guadalupa ed essermi barcamenato nei Caraibi per qualche settimana, rinuncio all'acquisto di quell'imbarcazione o di una simile, rinuncio a completare il giro del mondo e torno a casa, vigliaccamente, in aereo.

Dopo aver fallito il giro del mondo raggiungo un compromesso con me stesso, la mia famiglia e la mia professione: sei mesi in barca e sei mesi di rinsavimento borghese. Fifty-fifty.

Finalmente, ricco dell'indennità di fine servizio, acquisto prima un 43 e poi un 47 piedi, l'attuale, con cui ogni anno navigo in lungo e largo il Mediterraneo.

Non sono sicuro d'aver superato il panico infantile verso l'elemento acqua, non sono sicuro nemmeno d'aver imparato a nuotare. Certamente ora so che ogni barca è culla e alcova, madre e amante e il mare, Mediterraneo o Oceano, é padre e amico.

 

I PIEDI PER TERRA

 

"Torna con i piedi per terra" . È il ritornello che sente ripetersi chi "ha testa per aria". 

 

E chi i piedi, e non solo, vuole tenerli in acqua?

Dopo la batosta subìta l'anno scorso in Grecia (la perdita del timone), quest'anno ho avuto una pausa di riflessione. 

Questo per dire che nella stagione che volge al termine mi son limitato a navigare  in  Croazia.

Problemi familiari e problemi ... editoriali (incontri di promozione del libro) mi hanno tarpato le ali, ma anche spinto a meditare sulle nostre epiche imprese.

Mi trovo ad essere provocatoriamente dissacrante nel presentarmi in pubblico  ai miei  "venticinque lettori".

Sarei sopravvissuto a ben tre naufragi e sarei, come velista, un fallito ed un vigliacco (per aver rinunciato a completare il giro del mondo a vela).

Non rinnego certo la mia passione velica, ma talora sono insofferente a come si presenta la popolazione di navigatori nei "socials", in certe riviste specializzate e nella grande stampa.

A migliorare l'immagine pubblica dei velisti abbiamo poi avuto recentemente quel parlamentare che giustificava il suo assenteismo in aula con la nota infelice espressione "io la politica la faccio in barca".

Combatto una certa epopea e prosopopea presente nel nostro mondo.

Rivendico per noi velisti la poesia delle navigazioni d'altura con il loro fascino degli orizzonti infiniti, Rivendico per noi l'estasi nelle nostre andature di bolina stretta.

Rifuggo da un certo compiacimento "culturale" dell'andar per mare, di chi magari in mare non ci va.

Console del mare, Educatore, Cultore e Narratore del mare, questi sono alcuni "titoli" di cui qualcuno, da terra si fregia.

Una nostalgia infinita provo quando vedo uscire in flotta i nostri bambini con gli optimis.

Che siano solo loro a "Sentire" il vento ed il mare, in purezza di cuore e di spirito?

 

MOLLO TUTTO

 

Una mitologia della barca a vela, da sfatare ?

Il mondo della Vela rappresenta un simbolo di libertà e di liberazione d'ogni vincolo terrestre e  vorrebbe librarsi in una dimensione eterea,  sospesa tra acqua ed aria, tra la crosta terrestre e la volta celeste.

Talora però può nascondere umana miseria e povertà.

Nella stagione autunnale ed invernale il velista va in depressione, a meno che non emigri nei paesi caldi. A novembre infatti parte dalle Canarie, l'ARC, la regata...non competitiva di chi vuole svernare ai Caraibi. Chi vive tutto l'anno in barca del suo lavoro (charter) a primavera tornerà, riattraversando l'atlantico da ovest ad est (un ritorno più impegnativo dell'andata). Chi invece potrà vivere in barca anche senza guadagnarsi da vivere continuerà a navigare o ad abitare in barca in altri mari. Magari passando dall'atlantico al pacifico e via navigando.Costoro sono quelli che hanno "mollato tutto", magari giurando di non tornare più ....nella civiltà di chi timbra il cartellino ogni mattina.

Ne ho conosciuti di questi giramondo, di questi nomadi o zingari del mare, ne ho letto (e ne sto leggendo) le gesta.

Joshua Slocum e Bernad Moitessier sono stati i mitici pionieri, i più romantici, della circumnavigazione del globo in solitario. Molti ne han seguite le orme, talora non da solitari e senza un  Around The World, ma zigzagando di qua e di là.

Anch'io  sognavo d'essere uno di loro ed in parte, solo per alcuni mesi all'anno, ne condivido lo spirito e cerco di emularne le imprese, nel mio piccolo.

È un po' il sogno di tutti, evadere e vivere di niente (del pescato magari) e di tutta la libertà e la poesia possibile.

Se si rimane nei nostri mari, però, per godere dei pochi minuti di bolina stretta, il vento bisogna andarselo a cercare...soffrendo con lunghe smotorate.

Per fortuna che la barca, anche  quella a vela, sta sul mare e nel mare c'è vita e nel mare e del mare  si vive.

Pure in Italia si può portare la propria residenza sulla barca. Ma anche senza trasferirvi la residenza, è la notizia di questi giorni, si  pagherà l'Imu e la Tari come una qualsiasi unità abitativa, magari come seconda casa....ed addio ogni poesia.

Capirete che la tentazione di fuggire è sempre più stringente.

Dire basta, mollare gli ormeggi, partire e sparire.


La SERENISSIMA

 

Nella precedente new ho dissertato su di chi ha la "testa per aria", i piedi per terra, i piedi in acqua.

Nella  simbologia  di alcuni gonfaloni del Leone di Venezia, i tre elementi (aria terra acqua) sono raffigurati insieme: il Leone è Alato, poggia i due piedi anteriori sulla terra, quelli posteriori sul mare.

La Serenissima, originariamente Stato da mar o "Stato marittimo" (che si sviluppava solo su isole e coste) diventa anche terrestre con l'espansione dei propri Domini di terraferma. I veneziani, originariamente solo mercanti e navigatori, diventano poi anche agricoltori e proprietari terrieri.

Ricordo ai triestini che anche Il Golfo di Trieste si chiamava Golfo di Venezia, ai tempi in cui la Repubblica Marinara di Venezia inglobava anche la costa orientale (Istria e Dalmazia).

Questo preambolo storico-geografico mi serve per confermare che un "barcaro" non può sviluppare la sua attività e felicità solo sul mare

I veneti attuali  (come gli attuali giuliano-veneti) dovrebbero far tesoro della millenaria civiltà della Serenissima: saper vivere e conciliare lo spirito del mare, la sua libertà, fantasia e avventura con quello della terra, la sua fecondità, progettualità e speranza.

Indulgo in questi discorsi perché le navigazioni primaverili/estive stanno per finire ed il freddo(?) autunno/ inverno è alle porte.

Noi del nordest (dopo la Bernetti e la  Barcolana) metteremo tra poco in disarmo le nostre imbarcazioni.

Altrove godono di una stagione velica più lunga, non solo quelli del sud, ma anche quelli del nord ovest. 

Basti pensare al mare dell'altra importante Repubblica Marinara (con la quale quella Veneziana era spesso in conflitto) quella di Genova. Conosco amici delle Riviere di levante e di ponente che continuano a navigare  d'inverno godendo di un clima più mite del nostro.

Noi prepariamoci a soffrire...con le nostre barche inchiodate all'ormeggio in acqua o legate a secco sulle invasature.

Ma quella invernale è la stagione della programmazione futura (oltre che della manutenzione).

P.S.

Una curiosità. Nella recente ridistribuzione territoriale della Sanità Veneta, quella che era l'Assl di Venezia si chiamerà l'Assl della Serenissima e comprenderà non più solo la Venezia lagunare ma anche un ampio territorio della terraferma. Un ritorno alle origini ?

 

IN PRIMAVERA SI RIPARTE

Per il diportista l'inverno è un periodo di disarmo e letargo. 

Per il velista regatante magari no.

Ma per noi, velisti non agonisti, la primavera segna il nostro risveglio ed il riarmo delle nostre barche. In realtà nel passato inverno ho interrotto il lungo letargo con una ricca, anche se breve,  parentesi ...oceanica.

Ma la nostra vera stagione è quella estiva, per cui in primavera si riparte. Pasqua, 25 Aprile, Primo Maggio. Sono gli usuali primi tre appuntamenti per collaudare le attrezzature della barca e la nostra volontà di ripartire.

Naturalmente dopo le rituali manutenzioni di primavera. Per me  incredibilmente semplificate da due anni, da quando batto la bandiera della Capitale Europea e da quando ho dotato la carena della mia barca di una  antivegetativa a durata pluriennale. 

All'insegna della massima semplificazione: dev'essere l'età e/o l'esperienza.

Fare  carena per me non è più un problema di stato...devo solo tenere in sospensione l'imbarcazione per alcune ore per un robusto  idrolavaggio e la sostituzione degli anodi sacrificali .Per il resto devo tenere sotto controllo le scadenze delle dotazioni di sicurezza (quelle poche previste dalla normativa Belga) e nessun'altra incombente burocrazia, Non più visite dell'Ingegnere del Rina !

Trovo come sempre qualche piccolo problema elettrico od elettronico all'impiantistica ed alle strumentazioni e via , si riparte. Disgraziatamente mi son dotato di troppi gingilli che soffrono il salmastro e che richiedono la dovuta attenzione , ma tant'è , quando funzionano danno tante soddisfazioni. Cito solo gli ultimi: pannelli solari, generatore eolico, dissalatore, potabilizzatore.

All'insegna dell'autosufficienza energetica ed idrica. 

Per la navigazione limitata che prevedo per la prossima stagione  potrebbero sembrare esuberanti , ma non lo erano per quelle degli anni passati e non lo saranno per gli anni venturi.

 

È TORNATA
É voluta tornare, nonostante se ne fosse andata l'ultima volta accompagnata dagli scongiuri dell'intero equipaggio (maschile).  Tutti i maschietti avrebbero giurato che quella donna portava sfiga: nei suoi 15 gg. di permanenza a bordo troppi erano i guai accumulati tutti insieme.

Ho accettato che tornasse perché accompagnata da un bel fustone che si  dichiarava molto  navigato. Avrebbe annullato la sfiga adesa a quella donna.

La vediamo arrivare con due ombrelli, una tunica verde, un asciugacapelli,un aspirabricciole a 220volt, un ferro da stiro, un set completo per manicure e pedicure, un casco di banane per il suo fabbisogno giornaliero di potassio. Tutti elementi che i marinai da tempo associano alle maggiori disgrazie a bordo.

Purtroppo devo anch'io, inizialmente incredulo, confermare le millenarie superstizioni legate a tali indizi. Ah, dimenticavo, dovemmo anche partire di venerdì. 

Avendola dovuta aspettare qualche giorno,  l'opera viva della barca si ricopriva di denti di cane e mucillagini . Era già di cattivo aupicio. Ho consumato due bombole per ripulire lo scafo in immersione.

Il dissalatore, appena revisionato dalla ditta costruttice va in avaria il primo giorno. Nella prima settimana l'avvolgifiocco si rompe due volte. Il miscelatore della doccia di poppa improvvisamente viene sputato fuori dal suo alloggiamento. Il teck della coperta appena rifatto va a liquefarsi. Salta una presa a 12 volt.

In compenso la donna si riscattava in cucina. La sua specialità: pollo arrosto con peperonata senza peperoni.

Il disastro più grosso si preannunciava all'orizzonte. L'avevo incaricata, improvvidamente, a riempire il serbatoio d'acqua di prua. Lo riempiva tanto da farlo scoppiare e riversare tutto il contenuto nei gavoni, anche in quello contenente il motore elettrico dell'elica di prua che  risultava subito fulminato. Una notte insonne al pensiero di quante migliaia di Euro mi sarebbe costato quel danno che sembrava irreparabile. Nella mia disperazione permisi che "quella donna" sottoponesse la delicata strumentazione ad un singolare trattamento. Per una notte intera lasciò acceso il suo prezioso phon (supersonico e digitale) nel vano dell'elica di prua (Bow-thruster).

La mattina dopo avremmo dovuto divincolarci da un ormeggio  che risultava imprigionato  tra smisurati "ferri da stiro" in una marina con pontili tra loro paurosamente ravvicinati. Impartisco all'equipaggio le istruzioni per tentare il disormeggio che sembrava  disperato senza l'ausilio dell'elica di prua.

Accendo il motore. Appena partito, in automatico, attivo anche l'elica di prua che, incredibilmente, sento subito funzionare.

D'ora in poi, contravvenendo ai miei principi,  raccomanderò alle signore che saliranno a bordo di equipaggiarsi dei loro più sofisticati asciugacapelli. 

 

BARCHE A VELA D'EPOCA

 

Alle moto ed alle  auto per essere considerate d'epoca bastano vent'anni , per le barche a vela almeno quaranta, per taluni cinquanta e solo per quelle rigorosamente in legno. 

Mentre per le moto e le auto esiste la rottamazione e lo sfascia carrozze , per le barche , soprattutto per quelle a vela, non esiste niente del genere, non si sa come  disfarsene. Ma il problema non sussiste perché i proprietari non vogliono disfarsene.

Se la barca in questione è una Costa Crociere, la sua demolizione viene contesa perché è un business  , non così per le barche a vela, perché,come ho detto, non le demoliranno mai. Ne ho conosciuti di questi proprietari, nei diversi continenti... perché , diventando io navigatore d'epoca ( da 40 anni socio della Società Nautica Pietas Julia) da un po' sto cercando barche che abbiano almeno quarant'anni.

La prima volta è stato nell'isola  Brava di Capoverde, dove facevo il medico volontario in un Ospedale dei Cappuccini. Ero  finalmente riuscito a convincerlo a vendermela  e pattuito il prezzo .Un venti metri di legno, auto costruito negli Stati Uniti dal  proprietario  che lì  si trovava, come emigrante , prima di tornare nelle sue isole come Parlamentare locale.Venni a sapere , dall'intermediario Padre Cappuccino , che poco prima della consegna   Il Parlamentare aveva portata la sua imbarcazione al largo e l'aveva fatta affondare.

Alle Canarie ci sono molte barche d'epoca abbandonate: ne ho viste sei a cui ero interessato. Non ho concluso niente . Nonostante i costi delle marine siano esorbitanti, i proprietari preferiscono pagare da anni e mantenerle inutilizzate : un modo per mantenere vivo un sogno  , quello di varcare l'oceano.

Altra trattativa andata inizialmente a buon fine avvenne con un altro isolano, questa volta della nostra Isola d'Ischia. Ma al momento di consegnarmi la barca, mi comunica che aveva cambiata idea: intendeva tenersela ed usarla come sua bara da far affondare al largo con il suo cadavere dentro.

Un'anziana vedova di Olbia(Sardegna) tiene da anni ormeggiato nel porto un lussuoso 55 piedi , in completo disarmo ed abbandono . Teoricamente è in vendita. Ma anche con me , come con i precedenti possibili acquirenti, la signora, al momento di firmare il contratto, alza smisuratamente il prezzo, rispetto a quello precedentemente convenuto, confessando che non se la  sente, di liberarsi di quella barca , come della memoria di suo marito. 

Storie di normali follie di vecchi e nuovi armatori.

 

AVVISI DI BURRASCA

Ponte ricco mi ci  ficco. Quello del ponte del 25 aprile di quest'anno doveva essere una ghiotta occasione per la prima uscita di stagione.

Siam partiti gasatissimi da Sistiana ed è stata, quella prima giornata, velisticamente molto fortunata. D'un soffio eravamo già a Pirano, tanto che prima d'entrare in porto ci siamo potuti permettere diversi gradevoli bordi.

La mattina dopo abbiamo assistito increduli ad un fuggi fuggi generale di tutte le barche . S'era sparsa la notizia (ed il panico conseguente) dell'approssimarsi della "bora scura". Il vicino  di barca, reduce dall'oceano, nel mollare gli ormeggi , ripeteva "la bora è come la droga, chi la conosce, la fugge".

Improvvisamente ci siamo trovati da soli nel porto, al primo rinforzo del refolo.

Non avevo nè sentito nè visto il meteo. D'abitudine io seguo il meteo dal Navtex che fino ad allora non avevo acceso perchè quello da Trieste non lo consideravo affidabile. Come non ho mai considerato affidabile il Meteomar Italiano , contrariamente a quello della Croazia ed ancor meglio quello della Grecia.

Comunque ci siamo goduti tutta la giornata un'insolita solitudine nel porto. Ormai  non potevamo più "scappare". Bisognava farlo, come l'avevano fatto tutti gli altri, di prima mattina, senza aspettare che la bora rinforzasse.

Nel programmare la giornata successiva ho dovuto alla fine cedere, verso sera, alle insistenze del mio equipaggio , più previdente e meno incosciente di me, che ha preteso d'accendere il VHF per ascoltare il meteomar  E fu subito terrore allo stato puro. Il tifone Medusa prima ed il tifone Medea dopo sarebbero arrivati sull'Adriatico Settentrionale, dove era prevista, nelle dodici ore successive, Burrasca forza otto. Saremmo stati bloccati in porto per la seconda giornata. Contagiato dal terrore trasmesso via etere sono entrato in panico anch'io. 

Un pescatore del posto, incuriosito dalla presenza di una sola barca (la nostra) nel suo porto, avvicinatosi in banchina "taca botton" con noi e ci comunica la sua teoria sulla bora.

" Tosi, aspettè doman matina . Ae sinque e mezo podè capir se partir o se star chi. Ze l'ora in cui la bora decide di pompar o de no pompar".

Così avrei fatto. Fisso la sveglia alle cinque e mezza. Vado a piedi a vedere com'è il mare ed il vento al di là del faro di Piran (Punta Madona).

Torno in barca e sentenzio. Ragazzi, si parte, affrontiamo pure la burrasca forza otto...

Puntiamo la prua decisa verso  Sistiana. Vele (ridotte) a segno ed un po' di motore . Siamo subito, e ci rimaniamo, sugli otto nodi e mezzo di velocità, nonostante il mare formato ed il vento sui venti nodi.

La bora da scura diventa chiara. Arriva un sole pieno. Le nubi si dileguano , come pure i paventati venti di burrasca. Arriviamo in un baleno nel nostro porto di armamento di Sistiana dopo  meno di due ore dalla partenza, pronti , verso le ore otto, alla prima colazione cui avevamo prima rinunciato.

Appena in tempo per assistere all'uscita dal porto delle barche che si sarebbero godute una tranquilla giornata festiva e di  "Liberazione" da ogni "terroristica" previsione meteo.

Noi, più che compiacersi  dello scampato pericolo, rimpiangevamo   d'essere tornati a casa con troppa precipitazione. 

Avevamo ascoltato la sera prima, non so se colpevolmente o...prudentemente,  gli "avvisi di burrasca".

 

I VELISTI

Dilettanti o professionisti?

 

È diventata una qualificazione molto generica, talora contraddittoria. È velista chi sul mare va a vela e non a motore. Semplice no?.

Ma c’è chi ha la barca di proprietà e chi no. La prende a noleggio o chi , pure pagando, s’imbarca alla cabina. Chi s’imbarca gratuitamente, chi con la partecipazione spesa, variamente intesa.

Poi ci sono i professionisti, chi con la barca ci campa, con il charter. Ed i super professionisti che vengono pagati per le attività agonistiche ...i grandi e titolati skipper delle regate.

Un mondo variopinto, poi ci siamo tutti noi che possiamo avere sperimentato, in momenti distinti, le diverse modalità d’imbarco

Devo confessare che talora mi trovo a disagio per essere confuso nei vari ruoli che posso aver rivestito, talora come armatore-skipper delle mie barche e talora come ospite di barche d’amici. Non ho mai pagato nessuno perché mi desse una mano nelle navigazioni crocieristiche ed anche nei trasferimenti di tutto riposo. E non ho mai voluto d’essere pagato come skipper, quale sono secondo la legislazione attuale.

Comunque chiarisco e concordo sempre prima dell’imbarco quello che è pur sempre un rapporto contrattuale in cui ci dev’essere uno scambio “alla pari” tra chi imbarca e chi viene imbarcato.

 

 

 

 

(Presentazione del sottoscritto in occasione della consegna Medaglia d'oro da parte dell'ordine dei Medici di Padova)

50aurea anni di Laurea

Dopo la Laurea, assolto il servizio di leva militare come Sottotenente dell’Aeronautica al 1* Roc di Montevenda, ha conseguito due specialità, sempre a Padova, Neurologia e Psichiatria.

Ha iniziato subito a lavorare come Neuropsichiatra in un Ospedale della Provincia per due anni, poi per vent’anni all’Ospedale Psichiatrico di Gorizia come Primario e quindi come Direttore.

Tornato a Padova ha svolto il servizio come Primario/Direttore in Psichiatria all’Ospedale di Padova per altri 10 anni . Nel settembre del 2001, in contemporanea con gli avvenimenti dell’ 11 settembre, chiese ed ottenne il pensionamento anticipato per dedicarsi praticamente a tempo pieno, alla sua folle passione per la vela. Un amico lo aspettava infatti alle Canarie per la sua prima traversata Atlantica a vela fino ai Caraibi. 

Smise l’attività come Psichiatra clinico per continuare quella di Psichiatra Forense, In Italia. All’estero e precisamente alle Isole di Capoverde ha continuato a prestare servizio come Medico volontario, ogni anno per un breve periodo,  in un Ospedale dei Frati Cappuccini. 

Iniziata la carriera come Aeronauta, la sta concludendo come  Pensionauta folle, dal titolo del suo ultimo libro appena uscito (sottotitolo: Vent’anni di navigazione di uno Psichiatra)

P.S

Pubblicazioni

Un centinaio di articoli pubblicati su riviste italiane ed estere, cinque volumi monografici sulla sua disciplina ed ultimamente tre romanzi autobiografici dai titoli : Enigma cancro, Robadamatti, Il Pensionauta folle.

 
ARREMBAGGIO ALL'ORMEGGIO, SALVATAGGIO MIRACOLOSO     

In mare aperto nei nostri mari non esiste il pericolo d’arrembaggio da parte di pirati del mare.

Esiste all’ormeggio. È da due anni che ne sono vittima, peraltro sempre in situazioni di grande tranquillità di vento e di mare.

L’affiancamento in porto da parte di imbarcazioni condotte da improvvisati marinai è il momento più pericoloso. Questi gentiluomini non sono mai pronti ad ammettere il loro errore di manovra né a riconoscerne i danni verso le imbarcazioni tranquillamente ormeggiate, per cui  l’esito assicurativo è molto problematico per chi ha subito danni alla propria imbarcazione.

Ora la stagione è in pieno svolgimento. La partenza quest’anno è stata più contrastata e ritardata del solito. Sembrava che tutto congiurasse per non farmi partire. Problemi della barca, problemi sanitari miei e dei miei famigliari. Alla fine sono partito, un po’ allo sbaraglio.

Certo è che il mio originario semestre sabbatico in vela, ultimamente s’è ristretto ad essere prima un quadrimestre, quest’anno addirittura solo un bimestre. 

La mia immagine di grande navigatore ha subito una vistosa smagliatura ed è.. definitivamente compromessa.

Questa “diminutio” è coincisa proprio con un anno di grandi onorificienze (40 anni di navigazione con il guidone della mia Società velica, 50 di Laurea, pubblicazione di un libro con le mie “gesta” marinare).

Quest’anno la navigazione, così com’è iniziata, prosegue all’insegna della massima improvvisazione. Necessariamente limitata al mare sotto casa, alla tanto vituperata ma anche tanto agognata Croazia.

Non mi sembra sia avvenuta la tanto temuta (od  auspicata) diserzione per via dell’imponente tassa d’ingresso introdotta l’anno scorso e quest’anno appena un pò ridimensionata. La Croazia, che faccia piacere o no, continua ad essere la meta usuale di chi tiene la barca in Adriatico, in ambedue i versanti.

Ed è così che anch’io mi son piazzato a metà dell’adriatico orientale (Spalato) per dar modo ad amici e parenti a raggiungermi ed imbarcarsi con me, il più facilmente possibile.

In un’isoletta sperduta con 40 abitanti ed un solo ristorante ci siamo rifugiati quella sera.

Il comandante allarmava l’equipaggio per un suo improvviso grave  malore. Attivata l’ emergenza Sanitaria, questa predisponeva immediatamente la disponibilità di un elicottero per il trasporto del malato da quell’isola al più vicino Ospedale. Quando già l’elicottero stava rullando in aeroporto per la partenza, avvenne qualcosa di miracoloso. I pochi abitanti dell’isola, allertati dal più attivo dei miei membri dell’equipaggio venivano a sapere del grave pericolo che correva un loro ospite appena arrivato in barca.Coralmente si attivavano alla ricerca dell’illustre cardiologo parigino che sapevano soggiornare proprio in quei giorni  come turista nella loro isola.

Me lo portavano  in barca, armato  della sua vistosa e sofisticata attrezzatura, in tempi da record con un loro mezzo di fortuna. Improvvisamente , dopo aver profferito queste parole “non so se arriverò a domattina”, mi vedo piombare in cabina il classico professionista sicuro di sé. “Bonne soir, je suis un cardiologue de Paris. Dite moi comment ca va?” Compreso subito il problema, avvisa di far spegnere i motori dell’elicottero che sapeva essere in partenza. “C’est pas grave” . Risolse il problema in dieci minuti: due spruzzatine sottolinguali di due magici prodotti mi restituì sereno all’equipaggio .

Come unica riconoscenza ha voluto una copia del mio ultimo libro, dichiarandosi pure lui appassionato velista.

Scopersi poi che il mio salvatore era veramente un illustre luminare della materia, direttore di una conosciuta clinica Cardiovascolare dell’Università di Parigi.

Riuscirò mai ad estinguere il mio debito alla dea fortuna?

 

LA BARCA SUI TRAMPOLI 

Pardon, sull’invasatura. È il destino delle nostre barche che, per preservarle, d’inverno le mettiamo a riposare in un bel cantiere recintato. Le sentiamo più sicure e controllate. In primavera vi faremo o faremo fare “i lavori”.

 Anni addietro ero orgogliosamente dedito al “fai-da-te”, cioè da me. Ora pigramente incarico il “cantiere” a far tutto, in modo che la barca possa essere pronta per la prima uscita che classicamente avviene per Pasqua.

Forse...I lavori, programmati e concordati da cinque mesi, non sono ancora iniziati e la Pasqua s’avvicina. Ed i cantieri esercitano il “diritto di ritenzione” per cui finchè i lavori non son finiti e, se non sono finiti, non son pagati, tu sei ostaggio di chi detiene in secca la tua barca. 

Questa è la sofferenza di ogni armatore ad ogni inizio stagione. Quest’anno è particolarmente acuta per la tracotanza del capo cantiere di turno. Cosa pretendi, lui lavora e tu pensi a divertirti ed a trastullarti con la tua barchetta. Un po’ di rispetto per i poveri lavoratori. Eh diamine.

Eppure noi “poveri” armatori siamo quelli che fanno sí che l’Italia sia il maggior produttore mondiale di barche da diporto (in realtà soprattutto dei mega wacth a motore).

La nautica in Italia, quella popolare e non, è un settore tra i più bistrattati da burocrazia e fisco, tanto che migliaia di noi è costretto ad emigrare all’estero, anche solo in confinanti Paesi Comunitari più comprensivi, abbandonando, per sopravvivenza, l’amata bandiera patria.

La normativa italiana inerente la “sicurezza in mare” talora rasenta il ridicolo, se non rischiasse d’essere tragica. Tra le dotazioni sanitarie è prescritta la necessità di avere a bordo un kilogramma di cotone idrofilo il cui volume occupa un intero gavone dell’imbarcazione .Tale materiale da tempo è sconsigliato dai sanitari per il tamponamento di ogni ferita, perchè ...pericoloso. Pericolosa pure è un’altra prescrizione riguardante la cassetta di Pronto Soccorso da tenere in barca: quella dell’ambu, una misteriosa ( per ch9i non è del mestiere) maschera che si applica sulla bocca di un infortunato per facilitarne la respirazione. In mano a chi non sa  usarla, può soffocare un paziente, soprattutto se sprovvista della necessaria cannuccia (non prevista tra le dotazioni di “sicurezza”).

Fosse almeno obbligatorio un corso di formazione ad hoc per il marinaio d’alto bordo.

No. Viceversa corsi da tenersi solo a Roma, per il conseguimento di altrettanti “Patentini” sono previsti obbligatoriamente per l’uso di strumentazioni elettroniche automatiche per le quali basta premere un tasto rosso (il DSC).

Non disperiamo. E’ arrivata finalmente la tanto attesa pioggia a catinelle. Arriverà anche il sole.

 

NAUFRAGAR M'È DOLCE IN QUESTO MAR 

L’uomo è un naufrago dalla nascita. Pesce nel grembo materno, è l’unico mammifero che riesce a sopravvivere sulla terraferma, una volta spiaggiato alla nascita.

Un iniziale naufragio che prelude e che determina la vita.

Il marinaio sente il primordiale anelito a ritornare nell’infinito mare, come un ritorno al grembo materno. In francese la madre si chiama la  mère, il mare la mer.

Il naufragio sigla l’inizio della vita, ma ne può determinare la fine. Il naufragio può essere l’atto finale, il può temuto dal marinaio. Affrontare il mare comporta anche il rischio, sempre incombente, del naufragio. 

È il paradosso di chi va per mare:  si abbandona la sicura terraferma per un richiamo irresistibile verso un elemento, quello marino, da cui si proviene ma che ne può rappresentare anche la fine.

Prospettiva apocalittica connessa all’inconscio collettivo del navigante che ama...galleggiare allegramente tra la vita e la morte.

Navigando su una barca, soprattutto se a vela, ci si condanna ad un mezzo di trasporto il più scomodo ed instabile con la preoccupazione costante di aver sempre acqua sotto i piedi, né più né meno della preoccupazione del terricolo di aver terra sotto i piedi.

“Sempre il mare, uomo libero, amerai, perché il mare è il tuo specchio; tu contempli nell’infinito svolgersi dell’onda l’anima tua, e un abisso è il tuo spirito non meno amaro.

 Godi nel tuffarti in seno alla tua immagine” 

(Charles Baudelaire)

UN PESCE FUOR D'ACQUA

IL PESCE FUOR D'ACQUA
Il marinaio è portato a gloriarsi delle sue epiche imprese.

No, la mia storia di marinaio velista è costellata di fallimenti e di naufragi.

Due fallimenti, naufragi tre.

Il primo fallimento l’ho subito come uomo ed è  avvenuto con la mia mancata carriera religiosa, dopo esservi stato preparato per lunghi anni in una rigorosa scuola di gesuiti. Sono stato bocciato all’esame di vocazione: non dovevo sbarrare la strada a quello che sarebbe stato il primo papa gesuita, papa Francesco.

Il secondo, ma il più grande fallimento come velista, è stato quello di aver mancato il programmato giro del mondo a vela. Dopo averlo sognato per tutta la vita, sacrificavo, per coronarlo, la mia carriera professionale con un pensionamento anticipato, ma, una volta attraversato l’oceano (il primo), invece di proseguire, tornavo  vigliaccamente in aereo dai caraibi.

Veniamo ora ai tre naufragi.

Il primo naufragio è comune a tutti noi uomini. È quello avvenuto alla nascita.

L'uomo, è un Pesce fuor d'acqua. Dovrei ricordare la fiaba del pesce audace, un pesce che dall’acqua divenne un pesce di terra e d'aria.

Prima c'era solo il mare. Poi arriva la terra che emerge quando il mare  si ritira, in minima parte (per 20/30%).

Dovrei anche ricordare, in proposito, quanto scritto sulla creazione del mondo dalla Bibbia nella Genesi e nella vicenda del diluvio di Noè. Tutto questo per quanto riguarda il rapporto più  generale tra il mare e la terra.

Ma torniamo in particolare alla vicenda tra il pesce e l'uomo.

La vita nasce dal mare, anche l'uomo nasce dal mare come pesce e diventa uomo quando viene spiaggiato sulla terra. Il primo trauma è il suo naufragio avvenuto alla nascita.

Nasce come naufrago sulla terra.

È il primo pesce che sopravvive, seppure spiaggiato, sulla terra. 

Nato e vissuto per nove mese nel mare della mamma, con "la rottura delle acque" , acquista l'autonomia sulla terra, trasformandosi   da pesce a mammifero. 

Scacciato dal paradiso terrestre (la pancia della mamma) sognerà sempre un ritorno all'acqua. Non essendo più un pesce non saprà più vivere nell'acqua e nemmeno sull'acqua. Avrà bisogno di imparare a nuotare e di una barca per galleggiarvi e muoversi in un ambiente che non è più il suo. Ecco che ricompare l'uomo marinaio che solca i mari perché ha il mare dentro di sé, per un richiamo atavico a quello che era il suo elemento prima della nascita. 

Sognerà un ritorno al grembo materno, la grand mer in francese, il gran mare, l’oceano, in italiano.

Per inciso ricordiamo la storia dei cetacei, (i delfini ma non solo). Il loro è stato un percorso inverso al nostro, quello del mammifero uomo.

Prima erano mammiferi terrestri poi sono diventati mammiferi marini.

Il secondo naufragio, quello personale e reale, è avvenuto di notte nelle gelide acque dell’adige, in tenera età: fui salvato con le reti di un pescatore. Un trauma infantile che sarà alla base della mia passione velica, una rivincita sulla mia infantile e più ancestrale paura, quella dell'acqua. 

Il terzo naufragio è stato quello della mia prima barca, un naufragio avvenuto non il alto mare per i marosi in burrasca, ma per un autoaffondamento nel suo porto di armamento, Il più inglorioso dei naufragi.

UNA TRATTATIVA CHE DURA UNA PANDEMIA

UNA TRATTATIVA CHE DURA QUANTO LA PANDEMIA.
Avevo deciso: mi serve una seconda barca a vela da piazzare in Grecia per un suo pronto utilizzo in loco.
L'avevo trovata vicino ad Atene. Scopro che il proprietario é addirittura un italiano e che porta la bandiera italiana. 
Il cacio sui maccheroni. 
Arriva la pandemia ed il primo lockdown. 
Sono costretto a rinunciare al progetto. 

Per la sempre maggiore difficoltà negli spostamenti interregionali ed internazional, mi dedico alla ricerca di una barca a motore da utilizzare solo in un ambito regionale.
Inaspettatamente, finito il primo lockdown (primavera 2020), il proprietario italiano della barca che avevo trovato in Grecia, mi cerca riproponendomi la sua barca ad un prezzo ribassato, tale per cui mi riprometto d'andare a vederla  con il primo volo disponibile verso Atene. 
Appena prenotato il volo ed organizzata la visita, il proprietario si dimostra poco entusiasta della mia iniziativa a tal punto che mi costringe a rinunciare alla prenotazione.
Salvo dopo un mese ripropormi l'acquisto tramite il Broker.  Se non volevo perdere l'affare avrei dovuto affrettare l'acquisto della barca, anche senza vederla, poiché altrimenti un turco, per conto di un oligarca Russo, se la sarebbe portata via. 
Al che chiaramente il sottoscritto così  si esprimeva: m'arrendo, largo a Turchi od ai Russi.
Passa un altro mese il Broker greco mi chiede se sono ancora interessato all'acquisto. Evidentemente la barca  non se l'era mai portata via nessuno. Ammesso che la storiella del turco bye russo non fosse stato solo un maldestro tentativo di forzarmi la mano ( ed il portafoglio).

Riprenoto il volo ad Atene. Una settimana prima del viaggio i voli della compagnia vengono cancellati per il ritorno in forza del virus.

Altra rinuncia forzata. Atene sempre più irraggiungibile, come pure la barca che ...mi aspettava ormai da due anni. 

Non desistevo. Riesco ad avere notizie dirette della barca , tramite un perito italiano che ne conosceva la storia ed un italiano che abitava da anni sull'isola greca dove si trovava abbandonata da anni.

Notizie molto poco incoraggianti: barca salvata da un naufragio mentre era in Italia e da molti anni in completo abbandono e disarmo in Grecia. Potei avere anche, tramite l'italiano residente  nell'isola, delle foto aggiornate sullo stato pietoso della barca stessa.

Scoprii anche che le foto ( molto lusinghiere) avute in precedenza dal Broker  erano datate di 20 anni prima, risalenti addirittura al precedente proprietario.

Insomma m'ero risparmiato un rudere ed una fregatura in largo stile.

Il virus mi aveva salvato dai lestofanti e riportato alla bieca realtà del mercato dell'usato della nautica pieno d'insidie oltre ogni immaginazione

"ORA O MAI PIÙ "

Mi ricorderò a vita questo ordine perentorio avuto dal mio aiuto skipper. 
Era il mio "secondo" che intendeva contraddire così una mia  indicazione contraria, data in precedenza all'equipaggio. 
Non so perché, ma io quella volta eseguii quella manova "suggerita"  e fu un disastro: genoa a brandelli ed ormeggio disastroso.
Mi convinsi ancor di più che nei momenti più impegnativi, soprattutto in quelli, non puoi rinunciare al comando e peccare di benevolenza  nei confronti di chi la pensa diversamente. 
Per assurdo, il comandante dev'essere lasciato solo a decidere anche se dovesse sbagliare. 
Guai interferire da parte di chi pensa di doverti sostituire nel comando e di saperne più  di te.
Ecco perché preferisco avere a bordo anche degli inesperti, piuttosto che degli "esperti", o sedicenti tali.
Prima o dopo costoro ti creeranno più  problemi di quelli che ti possano risolvere.
Diffido da chi si offre a "darmi una mano". Preferisco chi mi chiede...umilmente d'imparare.
Avrò anche un caratteraccio, ascolto anche i consigli dell'equipaggio, ma decido sempre io. 
E le discussioni le accetto, semmai, dopo e solo se han eseguito i miei ordini.

Ciaveve mi vago